Libano, esplosione nel porto di Beirut: quattro anni e nessuna verità

Il 4 agosto di quattro anni fa un boato seguito da una deflagrazione assordante si abbatteva sul porto e i quartieri limitrofi di Beirut. La detonazione, di una forza pari a un ventesimo di quella della bomba di Hiroshima, sventrò interi quartieri della città e fu tale da causare un terremoto di magnitudo 3.5. I morti furono più di 200, 7mila i feriti, 300mila gli sfollati. I danni, secondo le stime della Banca Mondiale, furono pari a 4,2 miliardi di dollari. Oltre alle profonde ferite fisiche quel che resta è una cicatrice psicologica sulla città e il paese. La negligenza e non un atto terroristico portò infatti alla detonazione delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimaste stoccate per sei anni senza misure di sicurezza, nell’hangar 12 del porto, infrastruttura chiave dell’economia libanese attraverso cui transita il 90% dell’import del paese. Inoltre, a quattro anni dall’accaduto non c’è ancora chiarezza né sulle circostanze dell’episodio né sulle responsabilità dell’accaduto poiché le indagini sono ostacolate dalla classe dirigente libanese. L’esplosione e i suoi detriti sono diventati un monumento all’irresponsabilità e corruzione di un’élite politica inetta e corrotta, simbolo del caos politico ed economico in cui versa il paese. Una vicenda giudiziaria incredibile Messa in prospettiva la vicenda giudiziaria dell’esplosione al porto di Beirut ha dell’incredibile. il 10 agosto 2020, meno di una settimana dopo l’esplosione, il primo ministro Hassan Diab fu costretto alle dimissioni. Nel dicembre successivo l’investigatore capo delle indagini sull’esplosione Fadi Sawan, accusò Diab e tre ex ministri di negligenza. L’indagine venne sospesa e Sawan rimosso per ordine del tribunale. Nel luglio 2021, un nuovo magistrato istruttore, Tarek Bitar, chiese di interrogare quattro ex ministri, ma il parlamento non concesse la revoca alla loro immunità e il procuratore fu costretto a sospendere l’indagine. Nell’ottobre 2021, una manifestazione organizzata da Hezbollah e dal movimento Amal, sospettate di un coinvolgimento nella vicenda, per chiedere le dimissioni di Bitar sfociarono in scontri armati. Il 4 agosto 2022, diversi silos di grano ancora presenti nell’area del porto e danneggiati nell’esplosione di due anni prima crollarono in seguito ad un incendio provocato dalla fermentazione delle rimanenti scorte di grano causata della calura estiva. Nel gennaio 2023, sfidando l’intera classe politica libanese, Bitar accusò il procuratore generale Ghassan Oueidat e altri sette di tentato omicidio, incendio doloso e altri crimini. Oueidat a sua volta sospese Bitar per insubordinazione e ordinò il rilascio “di tutti i detenuti” per l’esplosione, lasciando le indagini in stallo e nessun iscritto nel registro degli indagati. Quattro anni e nessun colpevole Nonostante reiterati appelli, la giustizia libanese è ancora in stallo: lo scorso gennaio la Corte di Cassazione ha infatti sospeso il mandato di arresto nei confronti dell'ex ministro dei lavori pubblici, Youssef Fenianos, accusato di omicidio e negligenza criminale dall'investigatore capo dell'esplosione al porto di Beirut, Aya Majzoub. Ancora una volta le autorità libanesi si sono mosse nell’ombra per sottrarre alla magistratura coloro che erano responsabili della sicurezza del porto della capitale impiegando tutti gli strumenti a loro disposizione per paralizzare le indagini e proteggersi dall’obbligo di rendere conto. Eventi che – come ha sottolinea Amnesty International – sottolineano una verità inquietante: “L’apparato giudiziario del Libano, totalmente asservito al servizio dei potenti, ha rinunciato a perseguire la verità e ad assolvere i propri impegni nei confronti della popolazione e delle famiglie che hanno perso i propri cari in una delle più potenti esplosioni non nucleari mai viste”. Vittime due volte A distanza di quattro anni ancora nessuno sa con precisione chi e perché avesse abbandonato quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio per anni in un container. Il collettivo dei familiari delle vittime ha più volte denunciato “il colpo di stato politico, di sicurezza e giudiziario” rappresentato dalla decisione di perseguire Bitar e chiesto, inutilmente, la creazione di una commissione di inchiesta internazionale che faccia luce sull’esplosione. Ad oggi l’unica certezza condivisa è che l’esplosione sia stata il risultato delle manovre criminali e dell’inettitudine di un establishment politico impunito e corrotto, i cui leader erano signori della guerra durante il conflitto civile in corso tra il 1975 e il 1990, che in questi anni ha ostacolato e tentato di depistare le indagini sulla peggior strage di civili che il paese abbia mai conosciuto in tempo di pace.