La Guerra fredda, trentacinque anni dopo: il più grande scambio di prigionieri dal 1989

Il 27 giugno 2024. E il 1° agosto dello stesso anno. In più di 50 anni di carriera politica – 52, per la precisione – queste due date Joe Biden non le potrà mai dimenticare; nelle 5 settimane che le dividono ha visto scriversi, o meglio ha scritto, la sua fine, e la sua eredità. Sono stati quelli i giorni in cui il lavoro diplomatico di più di un anno è andato a compimento. Quelli i giorni in cui la Russia ha detto sì, e gli Alleati coinvolti hanno detto Jawohl. Prima, c’era stato il drammatico dibattito con Donald Trump. Il momento in cui non solo gli avversari, non solo la base, non solo i colleghi del partito democratico, ma il mondo intero aveva iniziato a chiedersi se il Presidente fosse davvero in grado di affrontare un’altra campagna elettorale, e soprattutto altri, possibili, quattro anni di mandato. Dopo, ci sono state le telefonate in viva-voce nello Studio Ovale, l’annuncio nella State Dining Room della Casa Bianca circondato dai familiari dei prigionieri americani, gli abbracci sulla pista della Andrews Air Force Base in Maryland. Prima e dopo, fine ed eredità: il più grande scambio di prigionieri tra Mosca e Occidente dai tempi della Guerra Fredda, 26 le persone coinvolte, l’aeroporto di Ankara trasformato nel “ponte delle spie” del terzo millennio, non sarebbe stato possibile se Biden non avesse messo in gioco tutti i suoi rapporti, tutte le sue conoscenze, tutta la sua capacità di mediazione. Il ruolo di Berlino Trovare il “pezzo grosso” da promettere a Mosca non era facile – Vadim Krasikov, condannato all’ergastolo in Germania per aver ucciso a Berlino un ex comandante indipendentista ceceno che aveva ottenuto l’asilo politico; particolarmente caro a Vladimir Putin perché agente del servizio di sicurezza federale russo FSB, unità d’élite Alpha, come confermato dal Cremlino. Portare a bordo Berlino non era scontato – convinto durante una visita del cancelliere tedesco a Washington lo scorso febbraio, quando, secondo il racconto di una fonte dell’amministrazione Biden, Olaf Scholz avrebbe detto al Presidente “lo farò per te”. Una decisione che evidentemente non ha rimpianto: è stata “giusta” , ha rivendicato accogliendo a Bonn gli ex prigionieri, “siamo una società fondata sulla libertà individuale e sulla democrazia e il fatto che coloro che devono temere per la propria vita, perché hanno difeso la democrazia e la libertà, possano anche contare sulla protezione degli altri, fa parte della nostra immagine di società democratica". “È un grande successo della diplomazia, e dell’amicizia. Rappresentiamo la libertà e la giustizia anche per gli altri popoli”: aveva detto ancora Biden annunciando l’avvenuto scambio. L’eredità più dolce. Il caso Vladimir Kara-Murza Nella State Dining Room della Casa Bianca, vestita di un verde squillante e accompagnata da due dei tre figli, c’era anche Evgenia Kara-Murza. “Mio marito è detenuto in una cella di isolamento in una colonia penale in Siberia a 3000 km da Mosca. Vive in condizioni che sarebbero una tortura per chiunque, ancor di più per lui che ha una salute compromessa dai due avvelenamenti subiti nel 2015 e nel 2017 – è stato fortunato, è sopravvissuto” mi aveva raccontato ad ottobre, ospite del palco del Live In di Sky TG24 a Roma. Riservata e ficcante; determinata e dolce; timida, e assertiva: parlare in pubblico, esporsi, fare advocacy non era stata la sua scelta, ma ormai era il suo destino. Allora Vladimir, in carcere già da tempo, era “in odore” di Premio Nobel per la Pace. “Per me è molto personale, mi diceva Evgenia, mi è difficile pensare a lui in questi termini. Per me lui è l’uomo che ho sposato 20 anni fa e con cui ho fatto 3 figli, la nostra vita è fatta di questo, non di premi e cerimonie. Ma so quanto sia importante la sua voce per tante persone. Lui crede davvero che il nostro paese meriti un futuro migliore”. Per Evgenia, il caso di Vladimir rappresentava la situazione dei diritti umani in Russia: giornalista, attivista, condannato a 25 anni di carcere per reati d’opinione. Ma negli ultimi tempi, e gli ultimi arresti lo dimostrano, la situazione è peggiorata: c’è chi viene incarcerato solo per aver manifestato con un foglio di carta con su scritto “no alla guerra” o mostrando il libro “Guerra e Pace”, chi per aver pubblicato post online contro i bombardamenti sui civili in Ucraina, o perché i propri figli a scuola hanno fatto disegni contro la guerra. Questa è la Russia di oggi. La voce dei dissidenti russi “Non credete che Putin rappresenti tutto il paese”, era stato il suo appello; “per aiutarci, dovete mandare un messaggio molto chiaro, un messaggio inequivocabile: il regime non viene uguagliato al resto del paese. Consapevoli che tanti russi vogliono un futuro diverso per il loro paese. Consapevoli di quanto queste persone rischiano per raggiungere questo obiettivo”. Persone come Sasha Skochilenko, artista e attivista, condannata a 7 anni di carcere per aver diffuso fake news sulle Forze Armate quando appiccicava adesivi contro la guerra sui prodotti dei supermercati; come Kevin Lik, studente, condannato a 4 anni per tradimento, il più giovane di sempre; come Oleg Orlov, co-fondatore di Memorial, condannato a 2,5 anni per aver screditato l’Esercito; come Ilya Yashin, politico, condannato a 8 anni e mezzo per fake news; come Andrei Pivovarov, capo di Open Russia, condannato a 4 anni per “organizzazione indesiderata”; come Liliya Chanysheva, Ksenia Fadeeva e Vadim Ostanin, collaboratori di Navalny, condannati a 9 anni. Per citare solo alcuni. Questa è la Russia che spaventa il Cremlino. Un accordo nato per Alexei Navalny Chi invece non c’era, nella State Dining Room, erano Julija e Dasha Navalnaja. Alexei, il 1° agosto, è stato l’Elefante nella Stanza. L’accordo era nato proprio per liberare lui, come ha confermato la Casa Bianca. La sua morte – provocata, aiutata, improvvisa – è arrivata prima. Ma a lui si pensa, sempre e comunque. “Sarebbe dovuto essere tra noi”, recita uno dei tanti cartelli postati sui social e esibiti per strada. Questa è la Russia che il Cremlino non capisce.

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