Pugili sempre. Trans boxing, il ring di Brooklyn oltre i pregiudizi

“How does it feel to be the owner of one of the most important gyms in New York?” “In New York City? You mean in the world.” "Come si sente a essere il proprietario di una delle palestre più importanti di New York?" "Di New York City? Vuoi dire del mondo." Lo spirito di New York e dei New Yorkers in quella risposta. Che non si allontana però dalla verità. La Gleason’s Gym è una palestra di culto per chi ama il pugilato. Su quei ring si allenava qualcuno come Mohammed Alì. Nella Storia. Sportiva e non. O Mike Tyson. Jake LaMotta. E gli altri 136 campioni mondiali che sono immortalati sui muri della palestra, situata sulla traversa di una delle strade più famose di DUMBO , Brooklyn. Quella della locandina di C’era una volta in America con il Manhattan Bridge incastrato tra le due palazzine rosse. A 100 metri da lì, sulla destra, si entra nel tempio della boxe. Una palestra storica. Tra comunità e inclusione È il primo ad arrivare. Apre la palestra verso le 4.45 di mattina. “L’unico momento di pace e silenzio in tutto il giorno” dice Bruce, proprietario da 42 anni. “Ho un grande ego e vedere l’attenzione che viene data alla Gleason’s mi riempie d’orgoglio. Per me significa tutto. È la mia vita”. Lui che ne ha visti tanti di quei 136 campioni. Che ha visto la palestra trasformarsi in un set cinematografico 26 volte. Per film come Toro scatenato di Martin Scorsese, che racconta proprio la storia di Jake LaMotta. O che ha ricevuto chiamate da primi ministri e leader mondiali per allenarsi in quella palestra storica degli Stati Uniti. Perché è questa la Gleason’s. O meglio, anche questa. Con valori che trascendono lo sport anche se in questi sono insiti. Perchè alla fine “è una palestra per la comunità. La boxe è uno sport che parte da questo, che ha radici sociali”. Con lui la Gleason’s Gym ha aperto alle donne nel 1983, portando avanti anche progetti sociali come allenamenti per i malati di Parkinson o programmi per i ragazzi di strada come GAKAD , uno di quelli a cui Bruce è più legato. “Perché tutti coloro che vengono qui sono uguali, conta solo l’amore per la boxe”. Non è un caso quindi che proprio sotto il Manhattan Bridge ora si allenano i pugili e le pugili di un altro progetto. Che parte da un’altra palestra un po’ più nascosta di Bed-Stuy, quartiere non semplice di Brooklyn. E che è arrivato fino alla Gleason’s. Trans Boxing. Trans Boxing Un progetto artistico nella forma di un club di boxe. È così che Nolan Hanson, fondatore e coach, descrive Trans Boxing. “I modelli convenzionali della boxe e la rigida separazione per quanto riguarda la questione gender non funzionavano per me e per gli atleti che allenavo. Quando ho fondato questo collettivo, ho pensato che ‘art project’ fosse il modo più corretto per identificarlo perché permetteva di sperimentare di più e aprire a nuovi spazi poetici e simbolici”. È stato il periodo di recupero da un infortunio al polso, dovuto a un incontro di boxe, che ha portato Nolan a riflettere su sé stesso e sullo sport che amava. Inizia la transizione di genere. E inizia ad allenare. Poi l’idea: un collettivo di pugilato per persone trans, non-binary o gender non-conforming. Nasce così nel 2017 Trans Boxing. La community La prima volta che Sam incontra Nolan è stata a un evento di fundraising per il progetto. “Qualche mese dopo mi ha mandato una mail, offriva lezioni private di boxe per la community. Avevo circa 40 anni al tempo”. Gender non-conforming dall’età di 15 anni, Sam aveva sempre cercato di sentirsi più forte fisicamente. Anche per quel sentimento di “uneasiness”, quell’essere un po’ inquieti, agitati, sempre all’erta, che deriva da “un mondo in cui non ci si sente molto sicuri se si è una persona queer”. Ma non solo. Per Sam la boxe era anche un posto dove poter incanalare la rabbia in un modo sano. “Mi permette di acquisire più consapevolezza sulla rabbia e sulla fisicità, aiutandomi a rilasciare energia. È uno spazio per ‘buttare tutto fuori’ e focalizzarmi solo su di me e sul respiro”. E poi la comunità. Con cui confrontarsi. Tra un allenamento e quelle serate al bar. Come ricorda Hill, che è entrato a far parte del progetto quasi subito dopo essersi trasferito da New Orleans. “Era un modo per conoscere anche altre persone queer. Ed era proprio bello perché c’erano persone di tutti i livelli, in un contesto più o meno rilassato dove però si poteva imparare tanto, Nolan infatti ha molto talento”. Così, giorno dopo giorno il progetto inizia a consolidarsi fino a arrivare alla palestra più importante degli Stati Uniti. La boxe Lo sport solitario. La nobile arte. E un po’ anche una danza. La boxe è storicamente lo sport che ha aiutato di più nel processo dei cambiamenti sociali. Tra integrazione etnica, socio-culturale e di genere. “Quando osservi un pugile sferrare un pugno sembra una cosa naturale, come se lo facesse da sempre. Ma non è così. Lo stesso vale per la nostra gender identity. Pensiamo che sia qualcosa che abbiamo dalla nascita. In realtà è sempre in divenire”. Il pugilato diventa quindi un modo per poter esprimere sé stessi. Attraverso i gesti. Le azioni. E anche la tecnica. “La mia speranza è che le persone che ci vedono in palestra inizino a cambiare idea sulla comunità trans e si concentrino solo sulle nostre capacità sportive” racconta Nolan. Perché poi dallo sport si parte. E allo sport si ritorna. In quella palestra che di fatto, come dice Bruce, “con un po' di cemento e un po' di polvere, rimane il posto più bello del mondo”. Così, quella frase di Virgilio che spicca sui muri e all’entrata della palestra acquista un valore ancora più profondo: “Ora, chi ha coraggio, e uno spirito forte e raccolto nel suo petto, si avvicini, si allacci i guanti e porga in alto le mani”.

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