Chi guida l'Iran? Pezeshkian è presidente ma Khamenei detta l'agenda

Mentre il mondo guarda con il fiato sospeso tutti gli avvenimenti del Medio Oriente, le scene dell’inaugurazione del presidente Masoud Pezeshkian, con il loro burocratico e fastoso trionfalismo, suonano come una nota stridente in un clima sempre più cupo. E improvvisamente complicato dall’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, colpito da un raid israeliano nella sua residenza, appunto, a Teheran. Perché la crisi del Golan è l’ennesimo tassello di un mosaico che rappresenta sempre più nitidamente uno scontro frontale tra la Repubblica Islamica e Israele. Con le ovvie drammatiche conseguenze che possiamo immaginare con chiarezza. Almeno dal 7 ottobre in poi, per i meno attenti. In tutto questo, la personalità e la politica del nuovo presidente, succeduto a Ebraim Raisi, scomparso tragicamente, sono – ad oggi – un rebus. Il ritratto difficile di Pezeshkian Il ritratto frettoloso che si può trarre proviene solo da fonti interne, e non dà elementi concreti per valutare quanto possa impattare la politica della Repubblica degli Ayatollah. A pesare, infatti, soprattutto l’imprimatur della Guida Suprema, Ali Khamenei, che il 28 luglio ha dato la sua benedizione al nuovo presidente dell’Iran. “Con sincere preghiere e auguri per il suo successo, vorrei ricordargli che il voto della nazione e il mio sostegno rimarranno intatti finché il suo approccio rimarrà coerente con la retta via dell'Islam e della Rivoluzione”, ha detto nel corso della prima cerimonia di insediamento, svoltasi nella sala dedicata a Ruhollah Khomeini. Parole che, al di là della forma, sono veri e propri macigni sul percorso del nuovo capo di stato, e che indicano la via da percorrere senza dover scontrarsi con la cerchia del reale potere iraniano: le autorità ecclesiastiche. Perché nel complesso ordinamento della Repubblica Islamica, un ibrido tra teocrazia e democrazia elettiva, qualunque passo, prima di essere compiuto, deve avere il benestare della Guida Suprema. Il ruolo delle gerarchie ecclesiastiche E non è un mistero che le gerarchie ecclesiastiche prediligano l’orientamento conservatore, per cui – sebbene smentite – per lungo tempo erano circolate voci di un possibile cambio della Guardia tra Khamenei e Ebraim Raisi, un radicale. Come altrettanto ovvio era il sostegno della Guida Suprema all’altro candidato, Said Jalili, di orientamento altrettanto radicale. L’incidente aereo avvenuto il 19 maggio scorso, in cui il presidente è morto, ha però rimescolato pesantemente le carte. E le elezioni successive, che hanno visto un’affluenza inferiore al 40%, hanno portato al vertice della Repubblica il “moderato” Pezeshkian. Tra virgolette, perché l’equivoco in cui spesso cadono molti osservatori esteri, è di considerare la dialettica interna al regime iraniano in termini analoghi a quelli dell’Occidente. Dimenticando, invece, che per poter essere candidati alle elezioni iraniane, bisogna superare il vaglio delle commissioni elettorali. Ovviamente presidiate dai clerici. E se è vero che in Iran vivono diverse minoranze tutelate, come ebrei – la più grande comunità del Medio Oriente dopo Israele -, armeni e zoroastriani, e che anche le donne hanno un peso politico, con seggi in parlamento, è altrettanto evidente che i loro margini di manovra sono molto limitati. Questo non toglie che Pezeshkian non fosse la prima scelta dei mullah. Si può anzi pensare che dovesse essere una sorta di specchietto per le allodole per dare una parvenza di pluralismo in una rosa di candidati che passavano dall’ultra conservatorismo all’estremismo radicale. Per questo è bene ricordare che tecnicamente, l’inizio del mandato presidenziale, nel paese, si fa coincidere con la “cerimonia ufficiale di supporto” del candidato da parte della Guida suprema, avvenuta il 28 luglio. Il giuramento, dunque, non è che un perfezionamento strettamente formale. Ed è per questo che le parole di Khamenei sono decisive, e suonano come una sorta di avvertimento. Le correnti politiche iraniane Però l’Iran non è il monolite che siamo abituati a considerare: non solo a livello di opinione pubblica, come hanno dimostrato per le proteste scatenate dalla morte di Masah Amini, che hanno scoperchiato il vaso di Pandora del malcontento trasversale, e non solo delle donne. Anche nella stretta cerchia di potere dell’ayatollah si intravedono schieramenti diversi. Andando oltre i 200 partiti politici che compongono il parlamento iraniano, per semplificare, si può dire che nell’inner circle si distinguono tre correnti: i conservatori pragmatici – i cosiddetti moderati, cui appartiene l’attuale presidente -, i conservatori tradizionalisti, e i radicali. I primi propendono per una politica meno ideologica. Sul fronte estero sostengono un approccio meno aggressivo e puntano a una sorta di legittimazione a livello internazionale, che vada oltre l’asse Russia-Cina e accoliti. Per questo, pur consapevoli del ruolo cruciale che Teheran gioca su questo lato dello scacchiere, sono anche disposti a compromessi. Sull’altro fronte si schierano i radicali, che invece sposano la linea intransigente sia a livello nazionale che internazionale. Sono per la redistribuzione della ricchezza e sposano una visione – appunto – radicale dell’Islam. Su posizioni simili in politica estera i conservatori tradizionalisti, che però non condividono la visione economica dei radicali, e sposano invece una visione più “liberale” dei commerci. In tutto questo, a complicare il quadro, la presenza dei militari e dei paramilitari, i potentissimi basiji, molto vicini ai radicali, ma anche “pragmatici” nelle questioni economiche, che gestiscono ben oltre metà dell’economia iraniana. Le prime mosse di Pezeshkian È per questo che simili caselle si rivelano strumenti insufficienti per interpretare e predire le mosse del presidente, che potrebbe sorprendere con aperture inaspettate o imprevedibili giri di vite. Come fece colui che venne frettolosamente definito il “Gorbaciov iraniano”, quel Mohamed Khatami che represse nel sangue le proteste studentesche del 18 Tir, il 9 luglio del 1999. In questo contesto, le prima mosse di Pezeshkian sono pressoché obbligate. Di qui gli incontri ai massimi livelli con l’ormai defunto capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e il segretario generale della Jihad Islamica palestinese, Ziyad Nakhaleh. Di qui il sostegno agli Houthi, i ribelli dello Yemen che hanno paralizzato il traffico commerciale verso Suez. E poi, come a sottolineare la granitica politica iraniana, le parole a favore degli sciiti libanesi. "L'Iran elogia la resistenza dei coraggiosi combattenti di Hezbollah contro le aggressioni e i crimini del regime sionista e continuerà a sostenere i movimenti di resistenza, come un dovere islamico e una politica di principio della Repubblica islamica”. Ma, appunto, siamo solo ai primi passi: difficile esprimere un giudizio. C’è da dire che di tempo per fare le sue mosse Pezeshkian ne ha davvero poco. Proprio in queste ore si gioca la partita più rischiosa, e sembra che il timone sia saldamente in mano a Khamenei e ai Basiji. Se però i dossier internazionali sono adesso sul tavolo, non si possono neanche trascurare i problemi interni con cui dovrà misurarsi. Perché l’affluenza bassa, le manifestazioni di dissenso sono un fardello pesante. Un Iran giovane e sciita D’altronde la popolazione iraniana è una delle più giovani del pianeta, la maggior parte è nata dopo la rivoluzione di Khomeini. Per cui la retorica della Rivoluzione ha poca presa, mentre i social – controllati, ma non in modo totalmente efficace – mostrano un mondo che va in una direzione molto diversa rispetto alla Repubblica Islamica. Del resto, l’Iran – persiano e sciita - resta un’anomalia in uno scenario prevalentemente arabo e sunnita. Con la sola eccezione della Turchia, con cui è sì alleata, ma in un complicato equilibrismo che vede i sogni neo-ottomani di Erdogan cozzare contro la volontà di leadership regionale di Teheran. Le aspirazioni egemoniche devono fare i conti con una realtà brutale. Perché se è vero che il dossier nucleare o la questione palestinese possono far presa sui radicali e la popolazione non inurbata, le tematiche che muovono l’opinione pubblica sono l’alto tasso di disoccupazione, al 14%, e l’inflazione fissa al 35%, la penuria di carburante in un paese che ha sterminate riserve di petrolio.