“Dummy” dei Portishead: 30 anni dopo, un'esperienza sonora ancora unica

A fine agosto del 1994 esordiva la band di Bristol. Un'opera ancora oggi imprescindibile - e talvolta anche mal interpretata - di ispirazione per molte band, ma che nessuno è mai riuscito a eguagliare. La musica pop, si sa, è fatta di corsi e ricorsi: è sempre stato e sarà sempre così. Molti segnali ci dicono che questo è il momento di un forte ritorno di fiamma degli anni '90. Per molti quel decennio è stato quello in cui sono apparsi gli ultimi timeless records, ovvero i dischi intramontabili, quelli che si possono ascoltare e riascoltare mille volte senza accusare troppo il tempo che nel frattempo è passato dalla sua realizzazione. Questo è il primo appuntamento che passa in rassegna i capolavori di quegli anni. L'esordio dei Portishead A fine agosto del 1994 usciva inizialmente un po' in sordina il primo disco dei Portishead - una formazione di Bristol - dal titolo “Dummy”, destinato a diventare una pietra miliare del suono contemporaneo. Il nome Portishead è quello di un'anonima cittadina vicino Bristol che “suonava bene” come nome per un progetto musicale; non si può parlare infatti di vera e propria band. Loro sono in tre: Geoff Barlow, un nerd del vinile, polistrumentista e precoce produttore, Beth Gibbons, una timida cantante quasi per hobby e Adrian Utley, un chitarrista amante del jazz. Bristol non era propriamente una capitale della musica, ma un paio di anni prima era emerso da lì un altro progetto simile – quello dei Massive Attack - conquistando critica e pubblico con un efficace mix di dub, soul, elettronica e hip-hop. Barlow aveva lavorato nello studio dei Massive durante la registrazione di “Blue Lines” e aveva intuito che quella miscela aveva ancora delle potenzialità inespresse. Il suono cinematografico “Dummy” ha un'idea di suono ben precisa e coerente in tutte le 11 tracce di cui è composto, pescando anche in questo caso dall'hip-hop, ma anche molto dal jazz, dal blues, dal rock e dall'elettronica. Quello che lo contraddistingue è però il mood fortemente malinconico e oscuro, ma allo stesso tempo anche elegante e morbido e che rende unica l'esperienza di ascolto, ancora oggi. Il disco ha una dimensione e un suono fortemente cinematografico , da una parte perché il disco è legato a un cortometraggio dal titolo “To kill a dead man” scritto, interpretato e musicato dagli stessi Portishead, una storia di inganno e vendetta dalle atmosfere tipicamente noir: la copertina del disco è proprio un frame tratto da quel cortometraggio che in realtà non ha avuto la stessa popolarità del disco. Dall'altra invece molte canzoni usano dei campionamenti di vecchi dischi legati al cinema: “Sour Times” ha un campione da "Danube Incident" di Lalo Schifrin dall'album del 1967 “More Mission: Impossible” colonna sonora della celebre saga, mentre alcuni riff della chitarra di Utley alludono al tema di James Bond di John Barry. L'approccio hip-hop e il suono di Bristol Le canzoni del disco hanno la costruzione tipica dei brani hip-hop, che si basa sulla ricerca ossessiva di oscuri vinili che potessero contenere delle parti strumentali da riproporre in loop. Ma al contrario di quello che fa solitamente un producer o un dj hip-hop, i Portishead una volta individuati i campioni in molti casi li risuonavano e registravano su disco, perché il suono del vinile autentico e invecchiato era importante tanto quanto il suono degli strumenti. Uno dei singoli più celebri del disco, “Glory Box”, contiene invece un sample originale della canzone del 1971 di Isaac Hayes, “Ike’s Rap II” che è irresistibile: Geoff Barrow fece ascoltare all'amico Tricky una demo in un'auto fuori dalla festa di Natale della loro agenzia di management e quest'ultimo non rinunciò a utilizzare lo stesso sample per “Hell is Round the Corner” pubblicato nel 1995 nel suo disco d'esordio “Maxinquaye”. Massive Attack, Portishead e Tricky con i loro dischi d'esordio furono le colonne portanti del genere trip-hop e in particolare del Bristol Sound, caratterizzato da una fusione di hip-hop, dub, soul e acid house ma con ritmi lenti e atmosfere notturne. Ma i Portishead rispetto agli altri due avevano alcuni elementi unici e distintivi: grandi melodie, canzoni che sarebbero diventati dei veri classici e il canto sofferto e intenso di Beth Gibbons. Il successo commerciale e i malintesi Il disco scalò lentamente le classifiche inglesi arrivando al #2 e vincendo il prestigioso Mercury Prize nel 1995 davanti a Oasis e PJ Harvey e piano piano la musica si insinuò dappertutto, a volte anche contro il volere della band. Infatti molte canzoni di “Dummy” divennero molto ascoltate come sottofondo, accompagnamento per conversazioni e cene e, a detta di molti, anche “ideal music to have sex”. Decisamente una cattiva interpretazione delle canzoni che invece trattavano di solitudine , delusioni, ambigue dichiarazioni di indipendenza . Difficile spiegare razionalmente questo misunderstanding, ma uno dei motivi potrebbe essere l’estrema intimità della voce di Beth Gibbons, che in alcuni momenti è registrata così da vicino da sentirla sospirare o riprendere fiato come ad esempio nel finale di “It Could Be Sweet”. I Portishead non sono più riusciti a replicare un disco di tale perfezione, anche perché i successivi lavori della band - soltanto due, ben distanziati, più un live con orchestra - sono stati sempre più sperimentali e, talvolta, anche d'avanguardia. Dall'altra parte molte altre band si sono ispirate al modello Portishead che mette insieme elementi del passato e del futuro, strofe placide e ritornelli accorati, ma purtroppo senza la stessa intensità e profondità. “Dummy” rimane quindi un unicum.