Solo, malato e stanco: quanto è umano Petrarca raccontato da Santagata

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Filippo Maria Battaglia

IL LIBRO DELLA SETTIMANA Guanda riporta in libreria il ritratto romanzato del poeta, a firma del suo più grande studioso. Un apologo sulla vecchiaia che si trasforma in una misurata dichiarazione d’amore

Il poeta laureato, in realtà, è un uomo malato, che rutta, recrimina sul proprio passato e con le unghie si gratta i peli radi del pube. È questa l’immagine apparentemente impietosa che Marco Santagata restituisce di Francesco Petrarca nel suo "Copista", da poco riportato in libreria da Guanda (pp. 140, euro 16).

Un uomo solo

Il racconto di Santagata prende l’avvio da una piovosa giornata di metà ottobre del 1368. Il poeta ha 64 anni. Sono lontani i tempi in cui “apriva gli occhi due ore prima dell’alba”, “si buttava di slancio giù dal letto” e “alacre e voglioso si precipitava al tavolo di lavoro”. Ormai sa che le sue pagine non sono più toccate dalla grazia di un tempo: “Tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso”, si dice ridacchiando mentre è condannato a rispondere a una sequela di adulatori che gli scrivono col solo scopo di ricevere una lettera da mostrare agli amici letterati.

Petrarca è benestante, venerato, omaggiato dai “Signori”. Eppure resta un uomo solo, stretto dai lutti e dalle perdite degli affetti: la morte del figlio Giovanni, del nipote Francesco (entrambi uccisi dalla peste) e poi la fuga improvvisa del giovane copista che - dopo averlo affiancato a lungo - lo lascia improvvisamente investendolo di improperi.

L’apologo sulla vecchiaia

Santagata traccia un profilo romanzato, molto umano, a tratti ardito. Lo fa con la misura e la conoscenza che gli derivano dai suoi sudi (è considerato il più autorevole petrarchista contemporaneo) e il suo romanzo diventa così un apologo della vecchiaia sincero e avvertito, che rende godibili anche i dialoghi più immaginari, come quelli che segnano l’abbandono del suo fidato collaboratore. Il poeta laureato scende così dal piedistallo e si fa umano; il classico (come ogni classico, del resto) diventa contemporaneo. E il ritratto che ne viene si trasforma in una garbata e godibile dichiarazione d’amore.

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