Luca Tosi: “Ho lasciato un posto in banca per fare lo scrittore”

È noir nelle tinte, neorealista per la crudezza, cinematografico come uno di quei film ambientati allo sprofondo degli Stati Uniti: Luca Tosi, scrittore romagnolo classe 1990, narra in “Oppure il diavolo” le disgrazie di un reietto, “povero diavolo” cresciuto senza amore e senza prospettive. Natale, questo il nome del trentunenne protagonista, è un antieroe che sullo sfondo di una provincia spietata deve scegliere tra il Bene e il Male. Tosi ritorna nei luoghi della sua infanzia e adolescenza, gli stessi del suo romanzo d’esordio “Ragazza senza prefazione”, edito da TerraRossa. “Non mi è mai venuto in mente di poter ambientare una storia a Bologna dove vivo. L’ispirazione mi arriva dai piccoli centri lontani dalla città”, racconta a Skytg24 Insider l’autore, la cui parabola è estremamente Millennial. Dopo aver impostato il suo ingresso nella vita adulta nel segno della stabilità e delle sicurezze, ha preso gradualmente le distanza dal mito del posto fisso, licenziandosi e scegliendo la letteratura. Come è arrivato alla scrittura e alla pubblicazione di due romanzi? Il mio percorso è stato particolare. Sono laureato in Statistica e finiti gli studi ho lavorato in banca. Avevo scelto statistica solo perché nei depliant dell’università c’era scritto che con quella laurea si trovava facilmente lavoro e garantiva più sicurezza e quindi avevo accantonato l'idea di fare lettere, sogno del liceo, perché mi sembrava velleitario. E poi cosa è successo? Credo di aver cominciato a scrivere le prime cose intorno ai 19-20 anni, proprio all’inizio dell’università, quando studiavo tutt’altro. Iniziai a inviare i primi racconti e a partecipare a dei concorsi, poi dopo cinque anni di banca ho mollato tutto. Mi sono licenziato nel 2016: mi sono detto “o adesso o mai più” e ho fatto un corso di sceneggiatura per il cinema, perché mi piaceva scrivere ma non avevo né capo né coda, ero impedito nel costruire una storia e quindi mi sono affidato a un tipo di scrittura tecnica che mi insegnasse a costruire una trama e portarla a termine da inizio alla fine. Da quel momento lì tutto ha preso una vena concreta ed è cambiato il mio approccio: dalla passione primitiva che derivava dai libri che leggevo sono arrivato alla scrittura vera. Ora lavoro come ghostwriter, ma non mi piace farlo sapere: vivo questa professione in conflitto perché mi toglie molte energie e si sovrappone al mio lavoro del cuore. Dovendo scrivere e leggere per lavoro tutto il tempo a volte mi capita di trovarmi con le ruote sgonfie quando lo devo fare per me. Anche perché, come ghostwriter, mi occupo soprattutto di autobiografie, quindi niente di narrativo, tanti incontri, persone che mi raccontano le loro storie. Come si entra nell’ambiente da outsider? Ho iniziato a scrivere racconti per varie riviste letterarie e questa è stato una palestra perché mi ha permesso di raccogliere dei pareri su quello che scrivevo, ma sempre confrontandomi con una forma breve, poi ho cominciato a scrivere cose un po’ più lunghe e alla fine del 2018 ho scritto “Ragazza senza prefazione”, un arrivo all’esordio un po’ complicato che ha richiesto un lavoro enorme. Ho dovuto tagliare tanto testo rispetto alla prima stesura, ed i romanzi brevi sono un formato difficile per le case editrici. Pensavo sarebbe stato rifiutato, ma un giorno in libreria vidi delle opere pubblicate da TerraRossa di lunghezza e forma simile. Mi convinsi così a contattare la casa editrice. Quest’anno sono usciti almeno due romanzi, oltre il suo, in cui scrittori italiani Millennial raccontano la provincia. Penso a Giulia Scomazzon con “8,6 gradi di separazione”, e “Piacere, Nico” di Martino Ferrario, ambientati tra il Veneto e la Brianza. Cosa ci dice tutto questo? Sono nato a Cesena e cresciuto a Santarcangelo che è il posto in cui ho ambientato il primo libro, mentre a Poggio Berni, che è invece lo sfondo di “Oppure il diavolo”, è il borgo in cui abitavo da molto piccolo e in cui vivevano i miei genitori prima di trasferirsi. Quando mi calo nella provincia per scrivere vado nel pozzo a pescare le parole, quindi la componente linguistica è molto importante. Mi piace scrivere attraverso i dialettismi, regionalismi e con parole che vengono dal territorio, e mi danno un ritmo del narrato. Amo portare sulla pagina la voce mentale che secondo me è quella che dalle mie parti si usa per parlare e pensare. Lo scenario narrativo della provincia diventa anche paesaggio cerebrale in entrambi i libri. Luciano Bianciardi diceva che quando uno si mette a scrivere di provincia, la provincia lo rimanda a una dimensione vergine di quello che vuole dire. Mi rendo conto di ricercare questa condizione, questa verginità, una necessità espressiva per me che si collega con il senso di appartenenza, nel senso che è quello il luogo a cui appartengo e che allo stesso tempo ci respinge e ci fa scappare e quindi tutti questi contrasti qua a me piace poi portarli dentro i personaggi con declinazioni diverse. Non mi è mai venuto in mente di scrivere un romanzo ambientato a Bologna perché a Bologna non ho vissuto certi conflitti: è una città in cui sono arrivato dopo, un luogo più grande dove le cose scivolano via, e non ci sono gli attriti della mia vita. Ha menzionato conflitti e attriti: quali sono quelli che poi si sono rivelati creativi e che ha tradotto in letteratura? In “Oppure il diavolo” è centrale il rapporto tra Natale e la mamma. Non era nelle mie intenzioni esplorare questo tema quando ho cominciato a scrivere, però quando mi sono trovato a esplorare il personaggio e a costruire una sorta di sua biografia da narrare è emerso piano piano come la miccia del suo turbamento e di quello che poi vive nell'età adulta, la difficoltà che ha di vivere in desiderio. La maternità si chiarisce come eredità interiore, a me è successa una cosa un po' singolare nel senso che la scorsa estate quando il libro era già finito, mia nonna mi chiama dicendo: “Ti devo dire una cosa, non te l'hanno mai detta. Quando tua mamma era incinta di te aveva deciso di abortire. Li ho convinti io a tenerti, dicendo che mi sarei occupata personalmente di te”. Ecco, da quanto io mi ricordi nei miei primi anni mia mamma era estremamente nervosa, molto manesca, e questa cosa l'ho ritrovata dentro quello che avevo scritto nella costruzione della madre di Natale. Natale percepisce molto questa colpa, quasi una colpa di esistere che gli viene trasmessa dal comportamento, dall'atteggiamento della mamma. A volte scriviamo cose molto personali senza rendercene conto, ci psicanalizziamo con la scrittura. Cosa stanno portando gli scrittori Millennial alla letteratura contemporanea? Direi una forte riflessione sul corpo. Ci sono temi comuni: uno è il rapporto col desiderio e l'altro è proprio la condizione del maschio. Molti altri scrittori della mia età stanno lavorando sulla maschilità in generale. Non è un caso se in Oppure il diavolo ho voluto privare il protagonista del babbo, perché volevo che non avesse nessun tipo di riferimento a cui aggrapparsi, nessuno che gli potesse indicare cosa fare, come comportarsi in certe situazioni insomma volevo che proprio fosse completamente esposto su questa cosa. Bene o male? Può vincere il bene nella provincia dove è cresciuto? Può vincere il riscatto? Il diavolo nel libro è una figura sospesa nel senso che viene inteso da Natale come un'alternativa perché, facendo il bravo, andando in chiesa, obbedendo alla mamma, facendo le preghiere, tutto quello che è stato richiesto, non ha mai ottenuto indietro nulla. Se si rivolgesse all'altra sponda, cioè alla tentazione di trovare una scorciatoia e di affidarsi alla vedetta contro gli altri e chi gli ha fatto del male? Ma Natale cederebbe la propria anima non per avere in cambio soldi o cose terrene, ma un amore, cioè una possibilità di innamoramento. Considera il diavolo come l'opposto del bene però allo stesso tempo si rivolge al diavolo per trovare un'espressione di se stesso che non trova lì nella sua provincia dove è etichettato, dove ognuno ha la sua etichetta. In modo graduale si spinge verso l'estremo e verso fine libro arriva proprio a scatenare il pandemonio. Natale era un buono che è diventato cattivo oppure era già un po' cattivo e aveva già il suo lato diabolico. A quali scrittori della tradizione italiana o straniera si è ispirato per raccontare la provincia? Negli ultimi anni io mi sono appassionato molto di scrittori romagnoli e emiliani diciamo. Quando ero un po' più giovane leggevo tantissimo autori americani, autori russi quindi andavo a cercare una letteratura che fosse molto lontana, poi ho cominciato a leggere autori che fino a prima io ritenevo locali: Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Tonino Guerra, tutti e tre sono poeti che hanno scritto molto in dialetto romagnolo. Tonino Guerra poi ha lavorato anche molto con il cinema, con Fellini, con Antonioni come sceneggiatore. Le poesie in dialetto al principio non mi interessavano per niente invece poi quando ho cominciato a leggere ho scoperto che io lì potevo trovare quello che stavo cercando, che era soprattutto un modo di scrivere, una voce per i miei personaggi e la cosa che mi ha proprio sbloccato è stato vedere come Baldini e Pedretti si traducevano dal dialetto all'italiano ma in modi completamente diversi. Raffaello Baldini era completamente aderente al dialetto: le parole erano quasi le stesse. Al contrario Nino Pedretti alzava il tono, cioè ci sono delle poesie dove il narrato nel dialetto è molto locale, ci sono delle espressioni così di pancia che poi nella traduzione italiana diventano italiano alto, lirico anche e lì ho cominciato a pensare che questa cosa in effetti mi succedeva anche a me. Cioè pensare in dialetto e poi scrivere in italiano più alto? Sì, lo faccio quasi sempre, soprattutto quando ho una voce in prima persona con cui mi confronto come in questi due libri, io penso proprio le frasi in dialetto e scrivo traducendomi in modo immediato in italiano sulla pagina cioè mentre schiaccio i tasti del computer. Nel suo contesto familiare il dialetto aveva un peso? Diciamo che i miei genitori lo usano più per momenti di rabbia mentre a casa dei miei nonni si parlava dialetto quindi lo conosco, lo parlo poco, però lo capisco. E in qualche modo è ritornato a quella fonte per la sua letteratura. Sì, ho proprio identificato il dialetto come una molla per scrivere: c'è proprio un canale espressivo che si è aperto, e che quindi mi aiuta molto a tirare fuori tutto, poi ci lavoro dopo, però intanto parto da un materiale che ho già scritto mentre prima la difficoltà era proprio trovare il modo di venire sulla pagina. Il dialetto mi permette di superare i blocchi. Due romanzi scritti, in entrambi la provincia è centrale. Forse perché è per natura cinematografica e letteraria? È una strada spianata. Quando si inizia a scrivere si pensa sempre che quello che ha intorno in realtà non sia degno di essere raccontato, quindi si si affida più all'esotico, a idee straordinarie, a cose più fuori dal normale che all'ordinario e anche questa è una cosa su cui negli anni ho ragionato. Mi sono reso conto che poi invece il racconto dell'ordinario è la chiave. C’è un libro che si chiama L'Infraordinario che ragiona molto su questa questione, l’autore invita a mettere una lente su quello che facciamo tutti i giorni, su quello che ci succede nei minuti che sembrano non avere nessun significato, dove non succede niente, perché in realtà si sta svolgendo in quegli istanti la nostra vita, la nostra autobiografia, quindi poi c'è sempre qualcosa da registrare, c'è sempre una nebbia: se riusciamo a scansarla le cose prendono una forma. Questa riflessione è molto vera nella provincia, poi è anche vero che è un periodo in cui forse anche per una saturazione dei romanzi ambientati nelle città negli ultimi anni la provincia ha avuto un revival. Per concludere con uno sguardo retroattivo e col senno di poi la statistica la ha aiutata nella scrittura? Sì, secondo me mi ha dato un approccio logico di costruzione sia delle frasi sia del discorso perché poi il discorso che faccio io attraverso i personaggi ha molto a che fare con il monologo e quindi il monologo ti costringe a trovare sempre un passaggio logico tra una frase e l'altra. I primi tempi leggevo i grandi della letteratura internazionale come Joyce e facevo gli schemi partendo dal racconto, per anatomizzare ogni cosa e capire il meccanismo profondo della scrittura.

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Ludovica Passeri