Elena Casagrande: "Il fumettista è un lavoro che non ti bussa a casa"

Un Eisner in bacheca e sul curriculum una lunga serie di personaggi iconici. Elena Casagrande è senza dubbio una delle disegnatrici italiani più popolari e ricercate sul mercato americano, dove da qualche anno ha firmato un contratto in esclusiva con la Marvel. Dopo aver rilanciato su una serie a fumetti apprezzatissima e premiatissima il personaggio di Vedova Nera, si è presa cura anche di quello di Blade. Ma sono tanti gli eroi e le eroine che ha contribuito a innovare. Ospite di Cortona Comics, si è raccontata a Sky TG24, ripercorrendo i momenti salienti di una carriera che, per molti anni, non pensava nemmeno di poter avere. A ogni fumettista si chiede sempre quando ha scoperto che avrebbe voluto fare questo lavoro, e la risposta più o meno è sempre la stessa: da bambino. La sua storia però è un po' diversa, giusto? Sì. Sicuramente non da quando ho cominciato a disegnare perché innanzitutto non sapevo che fosse un mestiere. Mio papà ha sempre letto Tex, quindi i fumetti a casa giravano. Io leggevo il Topolino e disegnavo per pura passione. E se mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo la segretaria, la stilista, la maestra. Ho cominciato a capire qualcosa quando sono diventata lettrice un po' più consapevole, da adolescente. Ho cominciato a leggere manga, a formarmi un po’, però avendo un riferimento così lontano, per rimaneva un mestiere inattuabile. Poi ho deciso di provare a fare la scuola di comics… Che poi almeno in parte la stilista la fa, quando disegna i personaggi e i loro costumi. E anche la maestra, visto che insegna. E anche un po’ la segretaria, perché io sono patita dell'ordine e dell’organizzazione. Quali sono gli autori che l’hanno maggiormente formata? Da piccola ricopiavo Mattioli, il suo “Pinky” sul “Giornalino”, poi i manga. Ho proprio cominciato a riprendere gli occhioni, tutte queste figure eteree, anche se a livello più narrativo e artistico uno dei miei maestri è stato Tsukasa Hōjō, l'autore di “Occhi di Gatto”. Quando sono stata fortunatamente costretta a conoscere il mercato americano, il mio punto di riferimento sono diventati Eduardo Risso, Frusin, quella scuola proprio di blocchi bianchi e neri, Mignola. Però mi piaceva variare quindi ci ho messo in mezzo anche Claire Wendling, gente un po' più “sporca” tipo Zaffino, Breccia, Tommy Lee Edwards. Ho fatto una accozzaglia di gente. All'inizio ha lavorato tanto su adattamenti a fumetti di serie tv. Come ci si approccia a un lavoro in cui i personaggi sono così fissati nella testa del pubblico che poi va a leggere? Devo dire che da questo punto di vista sono stata fortunata perché ero fan di quasi tutte le serie che ho disegnato, quindi il mio approccio era da usufruitrice della serie e la mia priorità era quella di ricreare l'atmosfera che si vedeva in televisione e rispettare la somiglianza, perché anche io da lettrice voglio rivedere gli attori anche su carta senza effetto fotoromanzo. Quando lavoravo su una serie vedevo solo quella serie, facevo gli screen delle inquadrature che mi interessavano di più, usavo le foto degli attori come reference e cercavo di riprodurre nella testa la sceneggiatura che mi avevano dato come se fosse in forma televisiva. E ogni serie che ho fatto ovviamente cercavo di diversificarla il più possibile. Guarda ancora tante serie tv? Mi hanno sempre affascinato di più le serie thriller, horror e umoristiche. Sono sempre stata abbastanza bulimica ma adesso riesco ad assumerne meno. Prima era molto più multitasking, mentre lavoravo avevo sempre qualcosa in sottofondo, invece adesso mi distraggo più facilmente e oltre alle serie tv seguo podcast e audiolibri. Poi ogni tanto si lavora in compagnia con i colleghi, quindi il tempo è diminuito e cerco di seguire qualche serie prima di addormentarmi, la sera. Come è arrivata alla Marvel? Ho iniziato col Chester Quest, un concorso che C.B. Cebulsky fece quando era ancora talent scout. Io non vinsi, Sara Pichelli sì, e insieme andammo poi al New York Comic Con, conoscemmo C.B. di persona e io ne approfittai per fargli rivedere il portfolio. Poco dopo lui tornò in Italia per Mantova Comics e mi fece fare le prime storie brevi. Quindi ho fatto una run di “Hulk Rosso” e poi c'è stato un grosso vuoto Marvel fino a “Black Widow”. Ecco, parliamo di “Black Widow”, la serie che ha realizzato con Kelly Thompson per cui avete vinto un Eisner. La versione cinematografica del personaggio vi ha influenzate? Il film era in alto mare quando abbiamo cominciato a lavorare. Dovevano essere due prodotti paralleli, poi c'è stato il Covid, noi fortunatamente siamo andate avanti col fumetto mentre il film è stato rimandato. Ma erano comunque progetti slegati a livello di trama e nessuno mi ha detto di prendere come riferimento la Natasha di Scarlett Johansson. Anzi, mi hanno chiesto di rifare il costume ispirandomi però a quello classico. Come cambia la vita di una fumettista dopo un Eisner? Innanzitutto più interviste, più attenzioni da parte degli eventi, delle fiere, di progetti collaterali, però subito dopo l'Eisner è arrivata l'offerta per l’esclusiva con la Marvel e a livello lavorativo non è cambiato quasi nulla: lavoravo in Marvel e continuo a farlo. Diciamo che pensavo di avere più potere contrattuale e non è andata proprio come speravo. Di sicuro non mi posso lamentare perché mi ha portato a fare un sacco di belle esperienze e a conoscere di persona autori maestri del fumetto, però devo dire la verità, prima mi ammazzavo per le deadline e continuo a farlo, quindi a livello pratico non è cambiata molto la mia vita. Come è stato lavorare su Blade, altro personaggio legato a una versione cinematografica diventata cult con un progetto di reboot che sembra non dover arrivare mai. Era annunciato per quando io ho cominciato la serie e come “Black Widow” doveva essere associato al film, invece non è mai uscito e penso non uscirà. A livello di trama erano comunque progetti distinti però quando mi hanno chiesto di realizzare il nuovo costume hanno voluto una versione più legata all'unica immagine diffusa di Maershala Ali e una più vicina al costume classico di Blade. Alla fine hanno scelto quello più elegante, più flat dell'immagine del poster che era uscito. E lei a cosa si è ispirata? Io mi immaginavo di muovere Blade come quello di Wesley Snipes, ho cercato di avere quei rimandi nella caratterizzazione. Diciamo che è stato un fuoco di paglia, è iniziata e finita così, però mi mancava solo lui di vampiro. Oltre a Vedova Nera ha disegnato altre supereroine femminili, Batgirl, Catwoman… Secondo lei quanto è importante che sempre più donne disegnino le supereroine, che sono state quasi tutte create da uomini e disegnate da uomini per altri uomini. Può essere un valore aggiunto avere uno sguardo femminile su personaggi femminili, però penso che il valore aggiunto sia il fatto stesso che donne e ragazze disegnino sempre di più. A proposito: com'è il mondo del fumetto per un'artista donna? Personalmente mi sono sempre sentita alla pari dei miei colleghi maschi, ma sentendo altre colleghe a volte purtroppo mi è capitato di sentirmi davvero fortunata. Ci sono situazioni in cui le discriminazioni esistono. È parte del collettivo Moleste. Quanto è importante per lei diffondere maggiore consapevolezza sui corretti rapporti tra generi? È assolutamente fondamentale. Moleste è un progetto che riguarda il mondo del fumetto e dell'illustrazione ma ci dovrebbe essere un progetto simile per ogni categoria lavorativa. Ingenuamente noi del settore pensavamo di poterne essere escluse e invece quando abbiamo ricevuto le prime testimonianze sono caduta dal pero. Anche qui, la mia esperienza personale è sempre stata positiva, però evidentemente le differenze di potere sono comuni a ogni lavoro e possono creare situazioni spiacevoli. Lei insegna anche ai giovani studenti fumettisti qual è il consiglio che dà più spesso e l'errore che corregge di più? Io faccio proprio un corso specifico sull'inchiostrazione e l’errore più frequente sta forse nella fretta che i ragazzi hanno di vedere dei risultati. L'inchiostrazione, ma tutto in verità nel disegno, richiede invece molta pazienza, molta delicatezza, molta disciplina; quindi spesso dico che è meglio fare metà lavoro bene che finirlo male. Il consiglio che do sempre è che se veramente vogliono fare questo lavoro hanno tutto il diritto di deprimersi, perché spessissimo le cose vanno male o comunque non secondo i piani; ma hanno anche il dovere di non arrendersi perché è un lavoro che non ti bussa a casa, se non lo cerchi tu non ti cercherà mai. È tra gli artisti che con EGAIR hanno lanciato l'appello per la regolamentazione dell'intelligenza artificiale. Qual è l'aspetto che la spaventa di più di questa tecnologia? Io mi sento abbastanza vecchia da poter dire che non ne sarei soppiantata, perciò la mia più grande preoccupazione, anche in veste di mamma, riguarda chi verrà dopo. La cosa che mi spaventa di più è l'eccessiva delega che diamo a queste tecnologie, il cervello, se non lo alleni, si atrofizza. Da tempo abbiamo smesso di allenarlo coi calcoli, sono la prima che anche per fare le tabelline devo usare una calcolatrice, ma mi fa tristezza che questo avvenga anche nell'atto creativo. Un lavoro del genere lo fai per la fame di comunicare, se deleghi tutto questo a uno strumento forse non era vera fame. Non è un processo che possiamo fermare, al massimo possiamo cercare di fronteggiarlo.

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