No, i guru della salute mentale su TikTok non ci fanno poi così bene

Più della metà – esattamente il 52% – dei cento video più visti con l’hashtag #mentalhealthtips su TikTok diffonde affermazioni non supportate da prove scientifiche, diagnosi fai-da-te o “cure lampo” basate su integratori e tecniche mistiche. In una parola: fuffa. È il risultato di una ricerca condotta dal Guardian che, oltre a classificare come inaffidabili questi contenuti, ha rilevato quanto raramente gli autori dichiarino le proprie competenze cliniche – d’altronde il più delle volte praticamente nulle - o invitino gli utenti a rivolgersi a professionisti qualificati. La grammatica della piattaforma – clip al massimo di pochi minuti ma spesso sotto i 60 secondi, musiche emozionali, linguaggio semplificato – privilegia naturalmente formule virali a danno della complessità clinica, inducendo molti utenti a confondere stress quotidiano, ansia e autentici disturbi psichiatrici. Un disastro annunciato. Giovani italiani fra pandemia digitale e fragilità emotiva Giusto per dare un po’ di contesto alla questione, basti pensare che in Italia il disagio mentale dei ragazzi era già in crescita prima della pandemia del 2020. E che, secondo i dati Istat, nel 2023 l’indice di salute mentale medio tra i 14 e i 19 anni è sceso a 68,7 su una scala di 100, con un picco di vulnerabilità fra le adolescenti . Openpolis conferma la stessa tendenza: negli ultimi tre anni questa fascia d’età ha registrato il più profondo peggioramento in termini di benessere psicologico. La dimensione digitale pesa naturalmente sempre di più, e non serve la notizia dei giorni scorsi, quella dell’adolescente in crisi di astinenza dopo che i genitori gli hanno tolto lo smartphone, per capirlo. L’Organizzazione mondiale della sanità, nel quadro HBSC 2022, stima per esempio che un adolescente europeo su nove mostri segni di “uso problematico” dei social network – sintomi vicini appunto alla dipendenza vera e propria – con picchi al 13% tra le ragazze. Da noi le percentuali ricalcano il dato continentale e il divario di genere è altrettanto netto: le giovani scivolano più facilmente in cicli di confronto sociale e contenuti autolesionistici. In Italia lo smartphone occupa d’altronde un posto fisso nella dieta mediatica dei minori: l’Atlante “Tempi digitali” di Save the Children stima infatti che fra gli adolescenti quasi quattro su dieci restino online per almeno quattro ore al giorno e un altro 35% superi addirittura le sei ore, mentre solo il 13% scende sotto i sessanta minuti. Il monitoraggio Telefono Azzurro–Doxa 2024 conferma la tendenza: il 50% dei 12-18enni dichiara di passare fra due e tre ore quotidiane sui social, e per uno su cinque la soglia sale oltre le quattro ore. Un’indagine promossa lo scorso anno dal ministero delle Imprese e del Made in Italy con la collaborazione scientifica dell'Alta Scuola in media, comunicazione e spettacolo dell'Università Cattolica su 1.677 ragazzi fra 8 e 16 anni fotografa valori analoghi: l’intervallo più comune è 1-3 ore al giorno, ma il 20 % naviga oltre le quattro. A questo si somma la frequenza d’uso: usa Internet tutti i giorni il 78,3 % degli 11-13enni e il 91,9 % dei 14-17enni, segno che l’accesso ai social è – senza sorprese - routine per quasi nove adolescenti su dieci. La trappola dello scrolling infinito Un’indagine di Amnesty International ormai un po’ datata, ma sempre importante, aveva invece documentato come l’algoritmo Per te di TikTok – la formula magica che gestisce e propone nuovi contenuti in base a una serie di ingredienti ma in particolare a ciò che abbiamo visualizzato in precedenza - dopo pochi minuti di scroll aumenti drasticamente la presenza di video su depressione, autolesionismo o suicidio, innescando cosiddette spirali di contenuto che possono aggravare sintomi preesistenti. L’esposizione ripetuta a messaggi ansiogeni o a “quick fix” terapeutici crea un effetto paradossale: anziché cercare assistenza qualificata, gli utenti finiscono per autodiagnosticarsi, attribuendo etichette cliniche a emozioni transitorie o, al contrario, minimizzando segnali d’allarme seri. Esattamente ciò che servirebbe di meno, in quelle condizioni e a quelle fasce d’età. David Okai, neuropsichiatra consulente e ricercatore in medicina psicologica al King’s College di Londra, che ha esaminato i video relativi ad ansia e depressione, ha spiegato al quotidiano britannico che alcuni post abusano appunto del linguaggio terapeutico, usando ad esempio termini come “benessere”, “ansia” e “disturbo mentale” come sinonimi secchi, “cosa che può generare confusione su che cosa implichi davvero una malattia mentale”. E poi c’è il dominio dell’anedottica: molti video offrono consigli generici basati su esperienze personali limitate e prove sporadiche, che ovviamente “potrebbero non essere applicabili in modo universale”. In effetti, ha confermato Amber Johnston, psicologa accreditata dalla British Psychological Society, sebbene la maggior parte dei video contenga un qualche residuo di verità, le clip tendono a generalizzare minimizzando la complessità del disturbo da stress post-traumatico o dei sintomi del trauma. Quando la disinformazione incontra il vuoto dei servizi Il successo dei “guru digitali” della salute mentale si spiega anche con la difficoltà, tutta italiana in questo caso, di accedere a cure psicologiche pubbliche e gratuite: nel Servizio sanitario nazionale opera uno psicologo ogni quasi 12mila abitanti – di fatto, come ad esempio per l’odontoiatria, quei servizi non sono garantiti dal pubblico - e i tempi di attesa per un colloquio possono superare i quattro mesi. Di fronte a costi privati poco sostenibili – e a bonus sporadici importanti ma non risolutivi assegnati dal governo o da alcune regioni come il Lazio – TikTok e altri social possono apparire come scorciatoie a zero euro e immediate. Il prezzo è naturalmente quello dell’illusione: consigli non verificati che, nel migliore dei casi, ritardano la diagnosi, e nel peggiore, rafforzano stigma e senso di colpa. Che cosa serve davvero Le evidenze raccolte dal Guardian portano a tre azioni necessarie per istituzioni, famiglie e professionisti della salute mentale. Primo, investire in alfabetizzazione digitale perché gli adolescenti imparino a distinguere divulgazione seria da intrattenimento pseudoscientifico. Secondo, potenziare le voci professionali online: psichiatri, psicologi e centri pubblici dovrebbero presidiare gli stessi spazi social dove oggi dominano creator improvvisati. O almeno provarci. Terzo, colmare il divario di accesso alle cure con politiche che rendano stabile il bonus psicologo e integrino seri percorsi di supporto nelle scuole, luoghi in cui ansia da prestazione e cyber-bullismo trovano naturalmente terreno fertile.

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No, i guru della salute mentale su TikTok non ci fanno poi così bene

Simone Cosimi