Breve storia di pubblicità, “brand ribelli” e controcultura

Per chi scrive, “Mad Men” rappresenta forse la vetta più alta tra le serie tv. “Mad Men” racconta quasi 20 anni di storia degli Stati Uniti visti attraverso le vicende di un gruppo di pubblicitari newyorkesi e i loro alti e bassi professionali e personali. La parte finale della serie è affascinante specialmente quando Don Draper, il protagonista della serie, si trova in California nel 1970 in uno sorta di crisi professionale e personale, per osservare da vicino i movimenti giovanili politici e culturali a favore dei diritti civili, la pace, la spiritualità e decisamente contro il consumismo esasperato che stava alla base del suo lavoro. Draper è per metà affascinato e per metà inorridito da questa controcultura che rischia di mandare in fumo tutto il suo lavoro ma nell'ultimo episodio della serie, mentre cerca di meditare, ha una folgorazione che gli permette di porre controcultura e consumismo non come forze antagoniste, bensì fonderle insieme per il suo cliente Coca-Cola. Da qui infatti nascerà la campagna “I'd Like To Teach The World To Sing” dove un gruppo eterogeneo di giovani hippy in piedi su una collina canta un inno di pace, amore...e Coca-Cola. Per la prima volta - la campagna si chiamava “Hilltop” e fu ideata dall'agenzia McCann Erickson – l'energia insurrezionale della controcultura giovanile viene messa a servizio del nuovo marketing, facendo rinascere la Coca-Cola che rischiava di diventare una reliquia degli anni 50. Coca Cola, Apple e Nike “Hilltop” fu il primo grande caso in cui un marchio commerciale si appropriava e vampirizzava un'istanza politica e controculturale generando una pubblicità iconica degli anni '70. La stessa cosa successe negli anni '80 con Apple e lo spot “1984” diretto da Ridley Scott e andato in onda in tv una sola volta durante un break del Superbowl, ma sufficiente per farlo diventare il commercial più iconico del decennio. Per Steve Jobs Apple rappresentava la controcultura sotto forma di brand tecnologico e, nella sua visione, il computer desktop Macintosh avrebbe liberato il potenziale creativo delle persone; tuttavia l'ostacolo si chiamava IBM, l'epitome del capitalismo anni '50, un'azienda burocratizzata che trasformava le persone in macchine. Nello spot, in un'ambientazione distopica, un gruppo di persone dai capelli rasati marcia in un tunnel trasparente per poi sedersi in una sala dove un orwelliano Grande Fratello sta pronunciando un discorso retorico e oppressivo da un enorme schermo, quando compare una giovane atleta dai capelli biondi e una canottiera bianca con un disegno stilizzato del Macintosh che impugna un martello dal lungo manico e lo scaglia contro lo schermo con un grido liberatorio. La luce irradia il pubblico che rimane a bocca parte avvolto da un vento che soffia potente dallo schermo infranto e mentre l'immagine scompare scorre verso l'alto la scritta : “Il 24 gennaio Apple introdurrà Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come '1984'”. Una pubblicità sfrontata in cui Apple si appropriava di grandi temi politici – la libertà contro il totalitarismo, l'individualismo contro il potere aziendale - per assicurarsi la leadership nell'information technology. Un approccio ideologico e quasi politico lo ebbe in seguito anche Nike che acquistò a caro prezzo la licenza della canzone “Revolution” dei Beatles. Anche in questo caso Nike invece di comunicare le proprie scarpe, celebrava la ribellione e l'anticonformismo nello sport: lo faceva con questo spot ma anche con Andre Agassi che sfidava il rigore formale del tennis. I cultural brand Ecco quindi che a partire da fine anni '90 - primi anni zero molti brand iniziano a creare e comunicare un “valore identitario”: Ikea, Virgin, Harley Davidson diventano quelli che il professore di Harvard Douglas B. Holt chiamava “cultural brand”. Quando Steve Jobs torna in Apple alla fine degli anni 90 dopo che era stato defenestrato si inventa la campagna “Think Different” per radunare i fanatici di Apple attorno a un brand che nel frattempo aveva perso di valore e status. Ma è una campagna che si esaurisce in fretta, perché l'obiettivo di Jobs adesso era diventare il mainstream e quindi non poteva più permettersi di essere troppo anticonformista. L'obiettivo stavolta non era quello di combattere l'establishment, ma prenderne il controllo. Quindi Apple è stata la prima ad entrare e la prima ad uscire da questa tendenza. Altri brand in modo un po' goffo hanno invece cercato di approfittarne, con un risultato fallimentare. Pepsi nel 2017 cercò di appropriarsi del movimento Black Lives Matter con lo spot “Live for Now” in cui si era costruita una falsa manifestazione di attivisti con Kendall Jenner come protagonista e una serie di luoghi comuni e stereotipi che ha portato molte persone a boicottare Pepsi, costretta a ritirare lo spot. La situazione negli ultimi anni. E oggi Negli ultimi due lustri le cose sono un po' cambiate e il marchio ribelle è diventato un gioco sconveniente per i brand, specialmente per quelli più grandi che oggi non possono più permetterselo, essendo diventati ricchi e potenti. Inoltre nelle società occidentali sono scomparsi i grandi movimenti controculturali e anche la possibilità di sostenere la diversità e l'inclusione che un tempo veniva vista come un atto di ribellione e un'opportunità commerciale, ora è il modello standard del dipartimento HR di ogni azienda. Il marketing di largo consumo ha una straordinaria capacità di assimilare, sfruttare l'energia e vampirizzare di qualsiasi e tutti i movimenti culturali, compresi quelli che in qualche modo vi si oppongono. Tutte queste riflessioni andavano bene in tutto il mondo occidentale, ma da poco più di un mese negli Stati Uniti la situazione è molto cambiata. L'avvento di Trump e la sua politica isolazionista e aggressiva, potrebbe portare alla riscossa in USA di una serie di movimenti giovanili antagonisti e contro il potere costituito. E magari, chissà, porterà alcuni brand a tornare ad essere ribelli.

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