Craig Thompson a Lucca Comics: "Dopo Habibi ho odiato il fumetto, ora provo a guarire"
LifestyleIl fumettista americano, ospite per Rizzoli Lizard alla rassegna in Toscana, si apre a Sky TG24. Dall'infanzia segnata da un'educazione fondamentalista cristiana alla crisi sofferta per le dure critiche subite dal suo secondo graphic novel. Con la voglia di guarire e lasciarsi alle spalle gli Stati Uniti
Sono passati 21 anni da quando Blankets uscì nelle librerie americane rivelando a tutti lo straordinario talento grafico e di narratore di Craig Thompson. Diciassette, invece, da Habibi, sua seconda opera, controversa negli Stati Uniti, amatissima fuori patria. Ed è di quest’anno il finale di Ginseng Roots, ultimo lavoro che ondeggia tra il saggio e il memoir, che ha per protagonista una radice e per coprotagonista, ancora una volta, la famiglia dell’autore originario del Wisconsin. Ospite per Rizzoli Lizard, il suo editore italiano, a Lucca Comics and Games 2024, Craig Thompson si è aperto in una lunga intervista con Sky TG24, raccontando gioie e dolori di uno tra i più straordinari fumettisti dell’epoca contemporanea.
Tutti i tuoi lettori sanno che da bambino eri un grande appassionato di fumetti, ma quando hai realizzato che sarebbero diventati il tuo lavoro?
Il mio primo amore sono state le strisce a fumetti sui giornali e in modo particolare i Peanuts di Charles Schulz, e la prima volta che ho capito che un essere umano poteva disegnare è stato quando avevo 5 o 6 anni e ho visto il mio cugino più grande disegnare uno sketch di Snoopy. Sono uscito fuori di testa, non avevo idea che un uomo potesse farlo, e ho iniziato a copiarlo e a un certo punto devo aver scoperto che Charles Schulz era una persona in carne e ossa e immediatamente è diventato il mio sogno.
Però non lo è rimasto per sempre, giusto?
Inizialmente volevo fare strisce per i giornali, alle medie ho iniziato ad amare gli albi a fumetti, poi arrivato alle superiori ho perso tutto l’interesse che avevo nei fumetti, li associavo ai collezionisti nerd… Più tardi ho deciso di percorrere una carriera nell’animazione e alla fine delle superiori questi sogni erano già distrutti dalla realtà, perché venivo da una famiglia della classe operaia, non sapevo come avrei potuto fare una scuola d’arte, e in più ho iniziato a realizzare che quella dell’animazione era un’industria in cui sarei stato solo un piccolo ingranaggio e volevo maggior controllo creativo rispetto all’essere solo quello che avrebbe animato i fiocchi di neve in Frozen. Volevo scrivere, disegnare, fare gli sfondi… e intorno ai 18 anni ho riscoperto i fumetti con i fumetti alternativi degli anni ’90, come Eight Balls di Dan Clowes, e così ho iniziato a sognare questa nuova strada per me.
Tutti nella tua famiglia disegnano: tu, tuo fratello, tuo cugino…
I miei genitori si sono allontanati dalle loro famiglie quando sono diventati Cristiani Rinati, quindi non sono cresciuto con nonni o cugini. E quello che ho raccontato prima è uno dei tre o quattro momenti della mia infanzia in cui ho incontrato i miei parenti, e forse questa cosa ha aggiunto ulteriore valore all’incontro. E mia madre poi aveva un fratello che avrò visto una o due volte prima che morisse a 33 anni, che ricordo mentre disegnava Bugs Bunny… Quindi sì, potrebbe venire dalla famiglia di mia madre.
Quali sono gli artisti che ti hanno influenzato maggiormente?
Bill Waterson, l’autore di Calvin & Hobbes, e Berkeley Breathed di Bloom County. Questa è stata la mia santissima trinità delle strisce a fumetti e penso che l’influenza maggiore l’abbia subita proprio da Calvin & Hobbes, per il modo in cui disegno alberi, neve… Le prime influenze dai libri a fumetti invece sono arrivate più tardi, quando avevo circa 20 anni e ho scoperto il fumetto underground.
Trovo stupefacente il modo in cui lavori con lo spazio sulla pagina. In ciascuna delle tue graphic novel, rompendo le barriere della griglia e creando qualcosa che assomiglia a una splash page ma che non è esattamente una splash page. Come lavori su queste pagine?
Penso che una parte dipenda dal guardare alla pagina stessa come a una cornice per la composizione più che immaginare le vignette. Penso che aggiungere le vignette possa risultare un po’ escludente per i lettori non abituati ai fumetti, è un po’ claustrofobico per i lettori meno iniziati. Quindi penso per prima cosa alla pagina e la gente lo paragona a quello che faceva Will Eisner, uno dei grandi maestri della composizione della pagina, ma anche Joe Sacco è stato una influenza enorme per me da questo punto di vista. Mi piacerebbe riuscire a realizzare un libro fatto solo composizioni a pagine piene ma credo che la densità della storia richieda l’utilizzo delle vignette, e queste ti permettono di controllare il ritmo e il tempo del racconto.
Ginseng Roots sembra tanto la chiusura di un cerchio aperto con Blankets. Come e quando hai capito che avevi qualcosa di più e di diverso da raccontare sulla tua giovinezza?
Quando ho iniziato a lavorarci volevo solo fare un saggio sulle piante influenzato dai lavori di Michael Pollan o John McPhee e dal suo Oranges degli anni ’70, un libro che rende incredibilmente affascinanti le arance. Volevo una pianta al centro della narrazione, non un essere umano egocentrico. Ma mentre facevo le mie ricerche sull’agricoltura e la globalizzazione, ho pensato che i miei lettori si sarebbero potuti annoiare, e quando ho raccontato che da bambino lavoravo d’estate 14 ore al giorno nelle piantagioni di ginseng, quest’erba cinese così rara, la gente è rimasta affascinata, e quello è stato il segnale che dovevo tornare al memoir. Non volevo ripetermi ma era chiaro che questo libro avesse bisogno di quella dimensione emotiva personale per rendere digeribili gli altri argomenti.
Nei tuoi lavori parli molto della tua educazione cristiana. In che modo ha impattato sulla tua vita, le tue convinzioni e la tua arte?
Enormemente. Sono cresciuto in una famiglia molto fondamentalista e isolazionista. Da bambini non ci era permesso di passare del tempo con coetanei che non facessero parte della chiesa, di frequentare attività extracurriculari, e forse questa è la ragione per cui io non sono un atleta… Questa cosa è limitato tantissimo la mia visione del mondo, mi ricordo che a 4 anni e ero completamente terrorizzato dall’idea che sarei stato torturato per l’eternità all’inferno e ho iniziato a vivere una vita profondamente religiosa. Ho letto la Bibbia dall’inizio alla fine almeno 10 anni, l’ho letta per ore ogni giorno per almeno 10 anni, e sono anche stato ritirato dalla scuola pubblica per ricevere un’educazione a casa che fosse orientata solo sulla Bibbia che è stata il mio unico libro di testo nel mio ultimo anno di scuola. Tutto questo ha sicuramente deformato la mia prospettiva, non mi identifico come un cristiano ora ma sono profondamente influenzato dalla spiritualità e dal simbolismo di Cristo.
Fare Blankets è stato un grande atto di coraggio, secondo me. Rivelare tutte quelle difficoltà che hai incontrato crescendo, con tutta quella durezza che tu e i tuoi fratelli avete ricevuto da vostro padre. È stata dura realizzarlo?
No, penso che Blankets sia stato necessario e terapeutico per me. Ho visto lettori omosessuali definirla una storia di coming out, e certamente io non ho fatto coming out sulla mia sessualità ma sul fatto che non sono il tipo di cristiano che i miei genitori sono, e l’unico modo in cui potevo dirglielo era attraverso un fumetto. Ero un bambino molto timido e anche da giovane adulto non ho mai appreso grandi abilità verbali, i fumetti erano il mio modo di comunicare. Avevo l’urgenza di dire qualcosa ai miei genitori e non sapevo come farlo, così ho lavorato per anni a questo libro e la parte sulla religione inizialmente non era nei miei piani, pensavo che sarebbe stato un libro piuttosto semplice sull’esperienza del condividere il letto per la prima volta con una persona, doveva essere un romance teen, e in parte doveva essere anche un libro su mio fratello perché con lui avevo condiviso il letto in un contesto completamente diverso, ma mentre lo scrivevo la questione religiosa e la mia relazione torturata con l’educazione impartitami dai miei genitori sono venute a galla.
Come l’hanno presa i tuoi genitori?
Non bene, sono stati arrabbiati per almeno 5 anni e questo ha reso le cose peggiori. Ma è stato il modo di iniziare a esprimere chi ero davvero e oggi, 20 anni dopo, i miei genitori hanno accettato il libro e in parte accettato anche me. È stato il primo passo per raggiungere un luogo migliore con loro.
L’anno scorso Blankets ha compiuto 20 anni. C’è qualcosa che cambieresti in quel libro o che diresti al tuo te stesso più giovane guardandoti indietro con l’esperienza di oggi?
No, non penso. Penso molto a quando ero un artista più “puro”. Forse sarebbe l’esatto opposto: vorrei imparare da quella persona piuttosto che darle dei consigli. Sono più anziano oggi, più cinico, e forse do per scontato il mio lavoro da fumettista mentre allora quella era la mia più grande storia. Sicuramente direi al mio io più giovane di prendersi più cura della mia saluta ma sto ancora lottando con quella sorta di dilemma…
Come è stato lavorare con tuo fratello su Ginseng Roots?
Fantastico. Mio fratello è stato il primo vero tifoso di Ginseng Roots, ci ha creduto prima di chiunque altro e si è fatto subito quel tatuaggio sul braccio (una radice di ginseng, ndr) come atto di solidarietà nei confronti del progetto. Nella mia immaginazione pensavo che avremmo disegnato insieme gran parte del libro, magari metà, ma non è mai successo. Alla fine mio fratello ha fatto una o due pagine per ciascuna delle uscite, perché inizialmente negli Usa il libro è stato serializzato, ma molto presto, dopo quattro numeri, si è chiamato fuori dicendo che aveva detto tutto quello che aveva da dire. Questo perché lui non è uno storyteller naturale, è un creativo, fa il graphic designer nella pubblicità, ma non ha mai avuto il forte impulso di disegnare storie e inoltre non è abituato a lavorare in maniera analogica sulla carta. Io avevo l’idea che avremmo disegnato insieme sullo stesso foglio come da bambini, e ci sono pagine di Ginseng Roots in cui abbiamo lavorato insieme, ma è stato un po’ complesso: io disegnavo sulla carta, scansionavo, lo mandavo e lui e lui ci lavorava sopra in forma digitale.
Nell’undicesimo e penultimo capitolo di Ginseng Roots racconti a tuo fratello che i fumetti sono stati il tuo rifugio dai bulli da bambino e si sono trasformati nel luogo d’incontro dei recensori-bulli ora che ci lavori. Che rapporto hai con i critici e i social media?
Non lo so, credo siano passati un paio di anni dall’ultima volta che sono stato attivo sui social media e i critici negli Stati Uniti generalmente odiano il mio lavoro, non so perché. Probabilmente è diventato un problema da Habibi ma il mio lavoro è sempre stato nel mirino di critiche negative e forse è anche uno dei motivi per cui sono stato notato, ma ho cercato di non andarmele a cercare. È una cosa che detesto, a volte mi piomba addosso, ma cerco di non cercare recensioni o il mio nome su Google: mi terrorizza.
Lo confesso: ho amato tutti i tuoi lavori ma ce n’è uno che ho amato più degli altri: Habibi. Potrebbe essere perché è stato il primo che ho letto ma non è semplicemente questo. C’è qualcosa di romantico in quel libro, in un modo molto diverso da Blankets. E amo quegli inserti calligrafici in arabo. So che hai ricevuto critiche dure sull’asprezza di alcune scene. Come ti fa sentire questo?
Habibi è un libro che sembra andare benissimo a livello internazionale: in Europa sicuramente, in India, anche in Medio Oriente, ma negli Stati Uniti è stato oggetto di continue critiche, minacce di morte… E non mi piace, mi rende impossibile lavorare, ho smesso di divertirmi nel disegnare da quando è uscito quel libro. Per più di 10 anni ha portato via la passione e il piacere di farlo. Se va tutto bene, ne sto uscendo ma ho realizzato Ginseng Roots in condizioni molto difficili: ero felice quando ero coi miei amici e non stavo facendo un fumetto, ma quando ne realizzavo uno volevo solamente uccidermi. E va avanti, ho fatto tanta terapia per liberarmi da quella sensazione che i fumetti mi facciano venire voglia di suicidarmi.
Qual è stato il momento più alto della tua carriera, secondo te?
Prima di Habibi, dopo tutto è stato un incubo, negli Stati Uniti. Ma sì, i miei 30 sono stati buoni, quando lavoravo ad Habibi ero felice, è stato il miglior decennio della mia vita, venivo dal successo di Blankets che aveva lasciato tanta energia positiva, avevo il supporto del mio editore per Habibi e il lusso del tempo per poterci lavorare. Venendo dalla classe operaia è stata la prima volta in cui ho avuto un po’ di tempo libero, la possibilità di fare altro al di fuori del lavoro, surfare, scalare, fare escursioni. Ero felice e in salute mentre facevo quel libro e da quando è uscito, invece, ho passato tutto il tempo a cercare di guarire.
Ti aiutano i commenti che ricevi quando viaggi e la gente ti dice che ama Habibi?
Sì, mi aiutano. In qualsiasi altro posto è l’esatto opposto e ne sono grato. Quando ho finito Ginseng Roots ero pronto a lasciare tutto e avviare una nuova carriera, avevo detto a tutti che sarebbe stato il mio ultimo fumetto, ma ora sono in Europa da un paio di mesi e mi sento così ispirato… Sto progettando di lasciare gli Stati Uniti e trasferirmi in Europa, dove trovo un ambiente che mi sostiene molto di più. Non so se sia qualcosa di personale nei miei confronti, forse è solo un riflesso di ciò che accade negli Stati Uniti, con tutta questa polarizzazione, forse sono solo una vittima di qualsiasi cosa stia accadendo lì in quel brodo culturale, ma mi sento più sicuro in Europa.