Rosa Montero: «Ecco perché la normalità non esiste»

«Ho sempre saputo che dentro la mia testa qualcosa non funzionava bene». Ogni sera, prima di addormentarsi, Rosa Montero chiedeva alla madre di nascondere un piccolo paiolo di rame che abitava i mobili della loro casa. Immaginava di leccare il metallo nel cuore della notte, sonnambula, e di assorbire un veleno che oggi, all’età di 73 anni, sa di avere solo inventato. La scrittrice e giornalista spagnola, che dal 1976 firma articoli sul quotidiano El País, condivide il ricordo d’infanzia nel libro Il pericolo di essere sana di mente , dove abbraccia la bambina che è stata e accoglie una teoria cresciuta con lei: la normalità non esiste. Infatti, secondo una ricerca del Dipartimento di Psicologia della Yale University pubblicata nel 2018, la normalità non è altro che una costruzione statistica che deriva dalla maggiore frequenza di un evento. Tuttavia, il modello ideale si scontra con la realtà, perché nessuno rispetta mai tutti parametri della regolarità. «La maggior parte di noi, e alcune persone più di altre, si sente diversa», spiega Montero, in collegamento da un luminoso soggiorno in Spagna. «Nell’infanzia, questa percezione genera un senso di inadeguatezza. A poco a poco, però, la vita svela due verità che sembrano opposte e che invece non lo sono: siamo tutti uguali e, allo stesso tempo, siamo tutti differenti. Crescendo, troveremo persone stravaganti esattamente come noi, e allora capiremo che essere strani non è per nulla strano». L’autrice ha smascherato quell’affollata eccentricità tra le scosse e le vertigini degli attacchi di panico, che hanno deformato per la prima volta la sua realtà quando lei aveva 17 anni. «Ero convinta di essere pazza e che nessuno fosse come me», racconta. «Per di più, in Spagna alla fine degli anni Sessanta non c’era l’abitudine di consultare psichiatri o psicologi. Ho attraversato quel tunnel da sola». Da lì, la scelta di affiancare all’università gli studi di Giornalismo e di Psicologia. «Volevo capire che cosa mi succedeva. Ho finalmente scoperto che si trattava di attacchi di panico, che sono molto comuni». Sorride. «Da allora, ho imparato ad accettare il mio piccolo bagaglio di oscurità e a vivere la stravaganza con normalità». Immaturità e immaginazione Se Rosa Montero temeva l’intossicazione del paiolo di rame, Franz Kafka masticava ogni boccone trentadue volte, Agatha Christie scriveva nella vasca da bagno, Sigmund Freud aveva paura dei treni, Alfred Hitchcock delle uova e Napoleone dei gatti. Esiste quindi una relazione tra la creatività e la stravaganza. «Metà della mia testa è razionalità, amo molto la scienza», racconta l’autrice, la formula della relatività che scava radici di inchiostro sul braccio destro. «L’altra metà del mio cervello è una fantastica e selvaggia immaginazione. Io vivo senza conflitti entrambe le parti». Come un chirurgo, Montero scandaglia le menti degli artisti, che non sono solo accarezzate dalle muse, ma condividono un’immaturità cerebrale. Secondo la neurobiologa spagnola Mara Dierssen, infatti, «il cervello umano impiega almeno trent’anni per maturare», spiega Montero. «Nella testa dei bambini si verifica una danza elettrica tra miliardi di neuroni, ma nell’adolescenza le connessioni che non sembrano più utili si spengono per favorire la concentrazione su attività essenziali per la sopravvivenza. Nei tempi preistorici, per esempio, questa potatura permetteva di focalizzarsi sulla caccia dei mammut o sulla cura dei cuccioli». Tuttavia, prosegue la scrittrice, «il 20% della popolazione mondiale non sviluppa un simile livello di maturità, perché i neurotrasmettitori sono alterati e non tagliano le connessioni in eccesso. La percentuale include sia le persone che soffrono di disturbi mentali, sia le persone creative. La differenza tra i loro cervelli stravaganti è solo quantitativa». È dunque colpa, o merito, della «falla del cablaggio neurologico» teorizzata dal premio Nobel per la Medicina Eric Kandel, e tra un cortocircuito e l’altro le «Persone Altamente Sensibili» individuate dalla psicologa nordamericana Elaine Aron stabiliscono contemporaneamente più associazioni, proprio come quei bambini che intravedono sul dorso di un cane le ali di un drago. «L’immaginazione è perfetta», continua Montero. «Le nostre vite sono sempre troppo piccole rispetto ai nostri desideri e alle nostre possibilità. Questo vale anche per le esistenze più grandi, come quelle di Alessandro Magno o di Marie Curie. Ecco perché abbiamo bisogno di scrivere, di leggere, di comporre musica, di dipingere, di andare al cinema e di guardare le serie tv. Sono tutti trucchi meravigliosi che ci consentono di assecondare la più grande possibilità che vive dentro di noi: essere milioni». Emily Dickinson, "Il pericolo di essere sana di mente" L’aveva intuito anche la poetessa Emily Dickinson, vissuta negli Stati Uniti nel XIX secolo. In vita, che per almeno vent’anni aveva trascorso rinchiusa in un’unica stanza, Emily aveva pubblicato appena dieci poesie. Soltanto dopo la sua morte la sorella Lavinia aveva scoperto le migliaia di parole nascoste che l’avevano traghettata su sponde di consolazione dagli ormeggi di un’esistenza che era stata crudele con lei, che aveva probabilmente subito violenze dal padre e dal fratello. «Il padre, un uomo che rappresentava il potere, l’autorità e la sanità mentale dell’epoca, aveva in realtà reso orrenda la sua infanzia», racconta Montero. «Lei, però, aveva trovato la salvezza nell’arte e nella poesia». Immersa tra i versi delle scrittrici vittoriane, Emily aveva scoperto nella letteratura un antidoto alle minacce del mondo terribile del genitore e aveva scampato il «pericolo di essere sana di mente», come decanta in una delle sue composizioni. «L’arte ci aiuta ad attraversare il dolore della vita e a sopravvivere», commenta Montero, che nel libro esprime una ferma convinzione: «Se non scrivessimo, impazziremmo, o ci scuciremmo, crolleremmo, diventerebbe ingovernabile la moltitudine che ci abita». L'entomologo Proprio come accaduto ad Emily Dickinson, tra gli ingredienti della «tempesta perfetta» che scatena la mente degli artisti si acquattano anche i traumi subiti nell’infanzia. «In presenza del dolore e della sofferenza, il bambino si dissocia», spiega Montero. «Da una parte, c’è il bambino che soffre. Dall’altra, c’è il bambino entomologo che, come afferma uno dei padri della psicoanalisi, Sándor Ferenczi, sa tutto ma non sente nulla e, di conseguenza, ha una visione olimpica del mondo e si prende cura del bambino che soffre». Tra le detonazioni della disperazione, l’entomologo si barrica dietro trincee di distacco e abbassa la guardia solo per rivivere attraverso l’atto creativo le emozioni che ha anestetizzato. «Il meraviglioso autore portoghese Fernando Pessoa aveva scritto che “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente, che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”», racconta Montero. «Significa che l’artista percepisce il dolore, ma per sperimentarlo davvero deve viverlo attraverso un’invenzione». I "tossici dell'intensità" e "il regalo delle fate" Nelle menti creative riecheggiano anche gli inevitabili passi del tempo. Quando aveva appena dieci anni, l’immaginazione di Montero correva rapida da un pomeriggio soleggiato alle ombre notturne, che si sarebbero presto dissolte tra i banchi di scuola, e poi ancora nelle curve dell’esistenza fino alle tombe dei genitori e, un giorno, anche alla sua. «In fondo, non mi dispiace pagare questo prezzo», dice la scrittrice, «perché quando sei molto consapevole della morte, sei altrettanto consapevole della vita». Sono «tossici dell’intensità», gli artisti, che ingannano quella «discoteca economica vista alla luce del giorno» che è l’esistenza. A volte, però, i creativi annaspano. «Le statistiche evidenziano in loro una maggiore tendenza alla depressione, ai problemi mentali e al suicidio. Questo vale ancora di più per gli scrittori. Non conosciamo il motivo», spiega Montero. Doris Lessing soffriva di depressione. I premi Nobel per la Letteratura William Faulkner, Ernest Hemingway e John Steinbeck erano alcolisti. Virginia Woolf si era inabissata in un fiume con le tasche piene di sassi, mentre Sylvia Plath aveva infilato la testa nel forno per inalare gas a pieni polmoni. Sentire e soffrire è il «regalo delle fate», un dono sublime che avvolge le fragili crepe del caleidoscopio degli artisti. Tuttavia, non bisognerebbe farne un dramma. «Si sente spesso dire: “La vita di un artista è costellata di dolore”. Ebbene, è una sciocchezza, perché parliamo sempre di una minoranza», specifica Montero prima di rivelare l’insospettabile professione che invece registra il maggior tasso di suicidi: i dentisti. Maneggiare un gioco così enorme può quindi avere un peso, ma come scriveva Charles Bukowski: «“E quando il mio scheletro riposerà nella bara, se ne avrò una, non ci sarà nulla che potrà togliermi le magnifiche notti che ho passato davanti alla macchina per scrivere”».

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