La magia del Cinema in mostra nei manifesti di Renato Casaro

Il talento di Renato Casaro ha varcato l’oceano e conquistato registi del calibro di Coppola, Scorsese, Bertolucci, Leone. Il gotha del Cinema mondiale lo ha voluto per fissare in un’immagine l’essenza di un’opera, armato del suo talento e dei suoi pennelli. Trevigiano, classe 1935, ha dipinto centinaia di poster dei più importanti film dell’ultimo mezzo secolo di Cinema; una quarantina di essi sono in mostra a Lugo di Romagna, antipasto di ciò che vedremo alla prossima Festa del Cinema di Roma. C’è un’immagine, tra le centinaia che ha realizzato in 70 anni di carriera, alla quale è particolarmente affezionato? Tutte le mie immagini hanno delle storie, piccole o grandi storie; hanno tutte qualcosa da raccontare e anche di affettivo. Comunque, direi che uno dei manifesti più riusciti è quello che ho realizzato - nel 1990 - per il film “Il tè nel deserto”. È un manifesto che avuto tanti premi, è un’immagine che è diventata un’icona, l’hanno adoperata in tutto il mondo. Anche come immagine di per sé stessa è bella. Nel film non c’è l’immagine, l’ho creata io come simbolismo della storia ed è stato molto difficile arrivarci; vi sono affezionato, sia per la fatica che ha comportato crearla e sia per il risultato finale. Sono molto legato anche al cartellone per “L’ultimo imperatore”, per il quale mi è stato assegnato il premio per il miglior poster mondiale da “Hollywood Reporter”: è una rivista statunitense di Cinema, quindi, è il massimo che puoi avere come riconoscimento mondiale. Sono emozioni che restano nell’anima. Quali informazioni di solito riceve dalla committenza, prima di mettersi al lavoro? È complesso e diverso ogni volta. Mi dicono “Vieni a vedere il film, è finito”. In questo caso la committenza ti dà la possibilità di “entrare” nel film, vedendolo. È di grande aiuto, perché così capisci bene di cosa si tratta. Fondamentale è anche interloquire con gli addetti ai lavori, col produttore, il regista e anche l’attore, se è così importante. In questo modo si crea una simbiosi, uno scambio di esperienze e di idee per arrivare al prodotto definitivo. Quali caratteristiche deve avere, un’illustrazione cinematografica, per avere successo? È una domanda che si dovrebbe rivolgere al pubblico, non a me . Io posso solamente dirle che è più facile rispondere se faccio un esempio, basandomi sulla descrizione di un manifesto. Quello di “Misery non deve morire”, tanto per dire, film del 1990 diretto da Rob Reiner, tratto dal romanzo di Stephen King. Quello ha una sua potenza drammatica, un dramma che emana dalla pellicola stessa. È una storia che ha avuto anche premi importanti, su tutti l’Oscar. Io ho puntato tutto sull’espressione dell’attrice protagonista, Kathy Bates. Le ho disegnato una catena con una croce d’oro che le scende sul petto, per creare il contrasto tra la cristianità, la positività e la cattiveria di questa donna. Ecco, secondo me, questa è l’attrazione maggiore per chiamare il pubblico. L’immagine non dice, non succedono cose; c’è solamente, nella casa che è nel bosco, una finestrella e da questa si nota - a ben guardare - un uomo che scrive a macchina. Insomma, sono storie così, storie sospese, in qualche modo. In questa maniera, per spiegarsi cosa sta accadendo, per capire, il pubblico deve andare al cinema, perché il poster semplicemente suggerisce ma non svela. Questo, probabilmente, è il segreto di un manifesto di successo. Una carriera lunga 70 anni, la sua, molto ricca di soddisfazioni. Ricorda qual è stata la sua prima esperienza da cartellonista? I primi sono stati tentativi e delusioni, anche. Anzi, più che delusioni direi ricerche, studi. Ho vissuto il passaggio da un paese come Treviso, provinciale, dove io sono nato e una grande città come Roma, dove sono arrivato non ancora ventenne, negli anni ’50. Era un viaggio enorme, a quei tempi e l’ambiente era enorme, totalmente diverso da quello che conoscevo. Ricordo che ero proiettato, catapultato in questa realtà, a Cinecittà, nel periodo della “dolce vita”, era una Roma eccitante. Io era alla ricerca di un lavoro, con le mie cartelle, dove conservavo opere create per fare esperienza. Andavo in giro chiedendo un lavoro, facendo il solito giro nelle case cinematografiche per avere qualche commissione. A un certo punto arrivò il primo incarico e da lì prese il via la mia carriera. Il rimo lavoro che ottenni fu dalla Minerva, che mi ingaggiò per lavorare sui cartelloni di “Criminali contro il mondo” e “Due occhi azzurri”. Si fidarono di questo giovane ventenne, anche se avevo già fatto molte esperienze da solo, studi non scolastici ma sulla materia del manifesto cinematografico, che non si insegna, non ci sono scuole adatte a spiegarti, a insegnarti. Un po’ come accade per i fumetti. Chi è fumettista è autodidatta, non ci sono scuole, è proprio un lavoro a parte: lo devi sentire, lo devi amare. Ha lavorato con italiani e con statunitensi: cosa ci accumuna e cosa ci differenzia? Gli americani hanno uno stile loro, ma oserei dire non tanto eclatante, non eccezionale. Ci sono stati dei maestri, certo, come ad esempio Drew Struzan, che ha fatto tutta la serie dei film di Indiana Jones, lavorando sempre coi pennelli, con una tecnica classica ed è stato eccezionale ma in generale gli americani non hanno mai avuto una grande scuola della cartellonistica, nonostante avessero dei grandi film. Adoperavano molto la fotografia, anche negli anni ’50; per esempio Casablanca, girato prima della Seconda Guerra Mondiale, è arrivato in Italia negli anni ’50 con un manifesto fotografico e un manifesto fotografico per un grandissimo film come Casablanca è un peccato. Dipinge ancora con le tecniche di una volta o si è lasciato sedurre dalla computer grafica? No, no, non voglio essere cattivo ma ho preferito fermarmi e rimanere quello che sono, altrimenti, avrei confuso un po’ le mie idee, i miei concetti. Non serve, non è servito, perché ho lavorato, fortunatamente, fino a un’età avanzata, per cui ho dato tutto. Continuare, cambiando tecnica, ho pensato che fosse inutile. È inutile, anche perché è una tecnica che io riesco poco a captare, a ricevere. Lavoro un po’ col telefono ma mi limito al telefonino e, qualche volta, con difficoltà. C’è mia moglie che lavora col computer, fa tutto lei, io mi limito a dipingere. La sua presenza qui, a Lugo di Romagna, al Lugo Vintage Festival, è molto importante. Qual è il suo legame con questo luogo? Il mio legame sono i ragazzi di Lugo, che è da tanto che mi seguono, sono simpatici, abbiamo lavorato. Mi avevano chiesto l’opera del trio, il produttore cinematografico Italo Zingarelli, che era di Lugo, per il quale ho disegnato diversi manifesti e poi Bud Spencer e Terence Hill. Lugo, sentendo la storia di Italo Zingarelli, non poteva che essere un punto di partenza, quasi un monumento. È una cosa che a Lugo mi lega molto. Oltretutto, io a Lugo non ero mai arrivato e immaginavo fosse un piccolo villaggio. Invece, mi ha sorpreso e molto emozionato. Insomma, conclude Renato Casaro, “il lavoro di illustratore per il Cinema si impara facendolo e per farlo devi amarlo profondamente. Solamente così ci riuscirai, solamente così avrai successo”.