Che fine ha fatto la classe operaia? La risposta è nella letteratura

La classe operaia se non va in paradiso, cerca un nuovo posto sulla terra. Precisamente cerca un nuovo posto nella contemporaneità e nelle storie. Per questo Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, figlio di un saldatore e di una casalinga, prova a definire un perimetro italiano per la letteratura della working class. Prunetti, dal 17 settembre in libreria con il suo ultimo libro Troncamacchioni dirige per la casa editrice Alegre la collana editoriale Working Class ed è il direttore del Festival di Letteratura Working Class nel presidio ex Gkn di Campi Bisenzio oltre a insegnare italiano L2/LS a lavoratori migranti. Parliamo di working class e non di classe operaia. Si tratta solo di un vezzo linguistico o c’è qualcosa di più dietro le etichette? Penso che working class sia un termine più inclusivo in qualche maniera ed è un termine più intersezionale ed è usato anche fuori dall'Inghilterra. Quindi non è un tentativo di fare un'operazione un po’ fighetta sul linguaggio. Come quando si vuole solo usare l’inglese. Faccio un esempio: come usare il Jobs Act per far entrare una cosa che poi è stata forse devastante per i lavoratori in Italia. Usare working class è un tentativo di riformulare una categoria che tutti hanno dato per morta a cui si sono affrettati a fare il funerale, ma forse bisogna cominciare a pensare che la bara era vuota. Gli operai non sono soli nella working class? Parlo di un lavoro più precario più intermittente, anche come si dice più femminilizzato nel senso che è aumentata la sia la dimensione dei lavoratori migranti e sia delle lavoratrici. Effettivamente nel contesto degli operai delle GKN, la parola classe operaia è quanto di più appropriato, perché loro sono proprio metalmeccanici, quindi anche nell'immaginario ricordano la classe operaia. Parlo di quella degli anni Sessanta. Ma quella era una classe operaia molto maschile, con le mani sporche. Il punto però è che la classe operaia che, per tanti anni, c'è stato detto non esisteva più, in realtà si è modificata e dietro quel ‘non esiste più’ c'è probabilmente un un tentativo anche di di annullarla nell'immaginario dopo averla scomposta nella produzione. Ma in realtà noi abbiamo una classe operaia fatta di tantissimi rider, facchini, lavoratori delle piattaforme, per non parlare del lavoro delle donne che fanno le pulizie negli ospedali, di chi si prende cura degli anziani o chi lavora nella ristorazione. Questa è la nuova classe operaia. La cameriera che serve da McDonald's non ha la tuta blu e non si riesce a concepirla nei termini di quell'immaginario degli anni Settanta, ma è nello stesso livello sociale. Per anni sono andato a lavorare in Inghilterra e facevo lavori con paga sindacale minima. Ero dentro alla working class però non in una fabbrica, ma in una mensa scolastica e facevo il lavapiatti. Ero parte della working class ma non avevo la tuta blu addosso. Anche la tuta blu oggi non ce l'hanno proprio neanche gli operai perché è un simbolo di riconoscimento. In qualche modo c'è il tentativo di inserire nel termine working class delle dimensioni dell'attuale lavoro sfruttato che non non sono identificabili a un primo colpo nell'immaginario nella vecchia classe di un lavoratore FIAT che magari ha un contratto forte stabile. Almeno un tempo ecco. Poi ora le cose sono cambiate anche lì. C’è un altro termine che si trova a dover affrontare e che è un grande dimenticato nell’Italia contemporanea: il conflitto. Come agisce il lavoro culturale in uno spazio di scontro? Ripenso un po’ alla citazione di Mao citata da Sergio Leone all'inizio di Giù la testa: ‘Non è un pranzo di gala’. È una situazione molto ambivalente perché dall'altro senti e percepisci delle energie che di solito non trovi in una situazione più comoda. Perché in effetti sei fuori dalla zona di conforto del lavoro culturale. Però quando fai effettivamente lavoro culturale in una situazione più complicata, se da un lato si innescano delle dinamiche e delle energie molto positive, soprattutto se le cose sono forti e solidali, purtroppo spesso capita anche di lavorare in contesti dove l'umore va giù. E una delle questioni per cui penso la mobilitazione GKN sia stata forte è perché ha saputo lavorare anche sull'immaginario. Fare il lavoro culturale dentro al conflitto sociale vuol dire anche confermare che il conflitto sociale è qualcosa che continua a esserci. Basta pensare che proprio prima del nostro festival qualcuno si è introdotto nella fabbrica e per un sabotaggio è andata via l'elettricità. Parliamo di libri circondati dalla forze dell’ordine e coi droni sulla testa, è una cosa che non succede in altri festival nei quali continua il trend di ascesa e ci sono i personaggi televisivi che discettano di tutto. Ma il nostro appuntamento non è, per così dire, un rito necessario. Se via e fare un lavoro culturale in un contesto con gli operai in disoccupazione, che non percepiscono nemmeno la disoccupazione, si capisce che c’è una tensione. Perché un evento culturale sarebbe anche un diritto perché da noi lo Statuto dei lavoratori dice che la cultura è un diritto degli operai, ma nessuno lo esercita. Fare il dopolavoro culturale dentro alla fabbrica dovrebbe essere un diritto garantito e riconosciuto, però il punto è che nessuno lo pratica. E se qualcuno prova a praticarlo e guai. Sia mai che degli operai si occupano dei libri, signora mia. Contessa, come siamo messi? Quindi effettivamente è problematico. Ecco, da un lato le energie sono più forti, dall'altra ti rendi conto che hai anche delle difficoltà che non trovi nel in contesti culturali diversi. E anche i libri si sono accorti di una working class? La premessa di tutto questo è che sembra paradossale, ma proprio dopo un periodo in cui tutti dicevano che le classi sociali non esistono più, siamo tutti middle class, non ci sono più le tute blu, gli operai in diversi Paesi per lo più europei c'è stato un rifiorire di opere letterarie che riportano al centro la classe lavoratrice e i suoi conflitti. Basti pensare a Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart che vince il Book Prize o Annie Ernaux che vince il premio Nobel per la letteratura e dice davanti all’accademia di Svezia che la sua scrittura è proprio stato strumento di emancipazione per la sua classe e il suo sesso. Nel raccogliere tutte le opere che hanno questo fuoco, abbiamo fatto un lavoro da formichine arrivando a spostare dieci volte il nostro peso, portando storie di vite al margine della catena alimentare dell’economia neoliberista e non solo. Portando quello che in Italia mancava. E così sono state riportate le storie a casa, anche in fabbrica? Il festival è al secondo anno. Il primo ha avuto 3500 partecipanti e il secondo 5000. Abbiamo provato a far incontrare i lavoratori della cultura con i lavoratori manuali che però hanno una forte lettura intellettuale della realtà come gli operai della GKN. Proviamo a fare il lavoro culturale con persone che tendenzialmente non stanno nella mente degli uffici marketing delle case editrici italiane grandi o piccole che siano. Che sono anzi quelli che di solito si denigrano perché non leggono neanche un libro all'anno. Anzi, si fanno questi articoli un po’ classisti e che ci fanno sentire bene perché noi almeno un libro l'abbiamo letto. Però dobbiamo chiederci perché alcune persone non si sentono rappresentate dai libri che si pubblicano. In realtà c’è proprio un approccio che spesso li allontana. Ci sono libri molto belli e importanti, ma che non sono nemmeno percepiti come libri che parlano della classe lavoratrice e del loro mondo. Un esempio? Una parte dell’Amica Geniale. Nell'opera di Ferrante non si rileva l'importanza del racconto sulla classe operaia che invece c'è ed è fortissimo. Dovremmo indagare questa omissione, questa miopia anche in parte della critica in parte, dei giornalisti che fanno recensioni culturali in parte e anche del sistema degli stessi lettori. Il nostro compito è proprio quello di risemanticizzare parole, riappropriarsi delle parole, come classe operaia, e di far vedere come molte opere parlano della condizione di questo tempo e la interpretano in un altro modo. Concludendo, perché c’è questa distanza, dove si trova la frattura tra libro e working class? Nella scelta delle storie o nell’assenza di interesse da parte degli uni verso gli altri? Io credo che in generale i libri non siano considerati più un valore. Un tempo c'era sicuramente l'idea che il libro fosse una questione se non di prestigio o di riscatto. L'idea di avere il figlio che studiava era soprattutto per certe fasce più della classe operaia una forma di redenzione. Era fondamentale. Ma c’è un altro punto. Leggevo un articolo di Loredana Lipperini nel quale si diceva che non è vero che i pochi lettori in Italia sono spaccati tra benestanti e persone comuni. In termini di quantità. Esiste invece un problema di sistema più grosso. C'è una dimensione di classe nel senso che effettivamente le vite delle delle persone comuni come si dice in inglese dei common people spesso non sono rappresentate nella storia se si va oltre il topos della della ragazza Cenerentola che trova il principe o del bravo ragazzo che con il duro lavoro si riscatta. Tutta una serie di stilemi non passa mai dal conflitto sociale. Quindi occorre provare a riprendere la classe e il tema del conflitto che è anche un tema narrativo. Perché ci dicono in qualsiasi scuola di scrittura che senza il conflitto non c'è la storia. Però allora perché non ci mettiamo anche il conflitto sociale? Perché di solito i conflitti sono sempre formulati in una chiave privatistica: la vendetta, l'amore, il tradimento? Però anche il conflitto sociale dovrebbe essere al centro di grandi storie. Perché lo è stato anche grandi, voglio dire. Pensiamo a Zola quando scriveva Germinal e così via. Sì, c'è un problema. Quindi c’è un problema? C'è un problema nel fatto che noi cerchiamo di raccontare i conflitti che non trasformano la realtà. Il potere trasformativo della narrativa si sta attenuando e in parte penso si sta attenuando anche perché non lo esercitiamo al meglio o se lo esercitiamo lo esercitiamo nella forma individualistica dello scrittore. Lo scrittore da solo vuole raccontare, magari bene, la realtà, ma forse per raccontare la realtà bisogna capirla insieme agli altri. Ecco perché è necessario oggi fare lavoro culturale e fare convergenza culturale perché io ho imparato tante cose dagli operai della GKN. Loro riescono a leggere la realtà meglio di me. Noi finiamo per occuparci di libri e star dentro a questi castelli di libri e loro tengono il culo sul mondo. Prendono mezzi pubblici per andare al lavoro e conoscono meglio di tanti intellettuali, se esistono ancora, la complessità della vita delle persone comuni. Io camminando con loro ho capito cosa non riuscivo a capire. E lì abbiamo provato a trasformare questa conoscenza in un impegno collettivo. Noi scrittori scandalosamente soli e renderci soli non ci trasforma in belle persone. Siamo competitivi, vittime, fastidiosi e performativi e in più non muoviamo niente perché i nostri libri si leggono se non in pochissime copie. Valiamo meno di qualsiasi influencer. Un tempo l'attore, pensate a Moliere, l’attore era una categoria denigrata e gli scrittori erano celebrati. Oggi gli scrittori non contano niente e gli attori muovono veramente le masse. O forse gli interpreti, i nuovi attori che si muovono su Tik Tok e così via. E quindi se oggi chi scrive vuol far qualcosa davvero sul piano culturale deve saper far le cose con le persone, con le basi sociali, con chi lavora e ha possibilità di trasformare il mondo.

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