La scrittrice Sabrina Efionayi: “Basta ipocrisie sulla cittadinanza”

Ha iniziato da adolescente a pubblicare su Wattpad, piattaforma di lettura sociale e condivisione di scrittura. Fino a 16 anni ha raccontato storie di ragazzi bianchi. Poi la presa di coscienza e l'esordio con "Addio, a domani", in cui ha ricomposto le tessere della sua vita. A undici giorni venne affidata dalla sua madre nigeriana, vittima di tratta, alla sua mamma italiana. Sabrina Efionayi, classe ‘99, è cresciuta tra due mondi. E con questa dicotomia poteva venire a patti solo attraverso la scrittura, il suo rifugio preferito. Non ha dubbi: il suo secondo e nuovo libro, edito da Feltrinelli, "Padrenostro", presentato al Festival di Mantova, è quello della svolta e della maturità. Perché al centro c'è l'atto creativo. La libertà di tornare a raccontare storie di bianchi. Stavolta non per desiderio di assomigliare ai suoi personaggi, ma per un'urgenza artistica e sociale che la porta a narrare la sua Napoli chiaroscurale e una comunità in cui sono i padri padroni, monadi del patriarcato, ad avere l'ultima parola. Cosa rappresenta questo libro per la sua vita? "Padrenostro" rappresenta un nuovo inizio per me. Per tanto tempo ho lasciato che ciò che era all'esterno definisse anche la mia scrittura personale. Ora ho capito che è importante differenziare in certi momenti quello che scriviamo con quello che siamo. È tutto frutto delle nostre scelte. Posso scegliere di raccontare me stessa come in "Addio, a domani" o di scrivere un libro come "Padrenostro" che ha per protagonista una ragazza napoletana bianca che vive la sua vita sotto la coercizione di un padre padrone. Qual è il bersaglio? L'obiettivo era far aprire gli occhi sul fatto che nel 2024 ci siano ancora situazioni di oppressione e paternalismo come questa, soprattutto all'interno di un certo tipo di comunità. La storia di Elisa è una storia vicina e reale, che ho vissuto attraverso quella che per tanto tempo è stata una mia carissima amica. Cosa ci insegna più in generale “Padrenostro” sulle relazioni familiari? È importante delle volte ridimensionare il rapporto con i propri genitori. Non tutti i padri e le madri si comportano in un certo modo per amore. Bisogna allenarsi a distinguere tra amore e costrizione. Come descriverebbe la nuova generazione di scrittori italiani? Penso che gli autori Gen Z e late millennial abbiano tanto bisogno di raccontare i nostri tempi in maniera nuova, utilizzando un filtro personale. Abbiamo un archivio vastissimo dei tempi passati. Continueremo ad attingere da questo deposito prezioso, ma sentiamo l'esigenza di produrre qualcosa di nuovo e di non tenercelo per noi. Il nostro mondo ha bisogno di essere raccontato. Desideriamo mettere al centro gli anni che stiamo vivendo ora, la società digitale con tutto quello che comporta. Pensiamo al fenomeno della letteratura sui social: ragazzi e ragazze che riescono a far spiccare in classifica libri dimenticati e che offrono il loro nuovo modo di comunicare. E poi credo tantissimo nella forza di raccontare se stessi per non farsi raccontare dagli altri. Questo è un punto cruciale. Se dico identità? Penso a Shrek e alla frase: "Gli orchi sono come le cipolle". Una persona è fatta di tanti strati che la completano: il primo spesso è solo l'involucro esterno e non ha molto a che vedere con la persona che siamo ma è come ci vedono gli altri e come vorrebbero definirci. Che idea si è fatta del riaccendersi del dibattito sulla cittadinanza e della questione Ius Scholae? È un tema vecchio, mai affrontato che mi riguarda da vicino. L'unica cosa che sento di dire è che forse dobbiamo spogliarci di un certo velo di ipocrisia. Ci sono sempre cose più importanti a cui pensare, poi però io posso pubblicare una serie di romanzi da quando avevo 16 anni, con degli editori italiani, aver vissuto sempre in Italia, essere nata in Italia, aver lavorato e pagato le tasse in Italia, ma essere stata riconosciuta come italiana solo al 19esimo anno d'età. È un tema su cui bisogna aprire gli occhi e non chiedersi se giusto o sbagliato, non è più il tempo, ma domandarsi per quanto tempo ancora vogliamo far finta che non sia effettivamente un problema.