Come nascono i film e le serie tv: una guida

Fare un film o una serie tv non è una cosa facile. A volte può sembrare di sì, ma è un’illusione: ci sono tanti passaggi che vanno presi in considerazione e rispettati. C’è una gerarchia nei ruoli che difficilmente può essere ignorata. Una frase che si ripete spesso, soprattutto a fronte dell’insuccesso di determinati progetti, più o meno famosi, più o meno attesi, è: “In Italia si producono troppi film”. E in parte è indubbiamente vero: i numeri ci dicono che siamo passati dai 110 film del 2012 ai 348 del 2023. In un anno, ci sono 365 giorni. Questo significa che, solo l’anno scorso, siamo arrivati ad avere quasi un nuovo film per ogni giorno. Ovviamente ci sono casi differenti: non tutti questi film seguono lo stesso percorso o hanno la stessa fortuna. Per questo è interessante capire come nasce una storia. E, più nello specifico, da dove si parte quando si vuole scrivere una sceneggiatura. Ludovica Rampoldi e Stefano Bises sono due degli scrittori più accreditati e importanti dell’industria audiovisiva italiana. Rampoldi ha lavorato a serie tv come 1992, 1993 e 1994; è tra i co-creatori di The Bad Guy, ha collaborato più volte con Marco Bellocchio. E appena qualche mese fa ha terminato le riprese del suo primo film come regista, Breve storia d’amore. Bises ha scritto Gomorra – La Serie, ZeroZeroZero e, solo più recentemente, M. Il figlio del secolo. Ha cominciato la sua carriera nel 1999, 25 anni fa. Ha creato una serie, Unwanted – Ostaggi del mare. Parlare con loro significa parlare con due professionisti del settore che hanno avuto – e che hanno ancora – molteplici esperienze con molteplici realtà. Quasi sempre il primo passo per sviluppare un film o una serie tv è individuare un produttore. “È lui che poi propone il progetto a un broadcaster o a un distributore”, dice Bises. “A me è capitato anche di presentare un’idea, o un soggetto, direttamente a una piattaforma o a un broadcaster e di individuare solo successivamente il produttore più adatto da coinvolgere”. “Dopo aver mandato il film”, spiega Rampoldi, “ci si arma di pazienza: i tempi di lettura sono lunghi, e le risposte, di qualunque tipo, non scontate. Succede che una sceneggiatura originale si imponga, ma succede raramente: in Italia non c’è un vero mercato delle idee e dei copioni”. Di solito sono i produttori a cercare sceneggiatori per i loro progetti e non viceversa. C’è una domanda e bisogna soddisfarla con un’offerta. “Ai più giovani”, continua Rampoldi, “consiglierei di partecipare a concorsi come il Premio Solinas, un modo per far conoscere la propria voce ed entrare in contatto con gli addetti ai lavori”. I tempi di lavorazione variano molto. E anche questo è un elemento importante da sottolineare. Scrivere una sceneggiatura significa imparare a convivere con una storia. A volte per mesi, altre volte per anni. Eccezionalmente per poche settimane. Il punto è sempre lo stesso: “Dipende”, dice Bises. “Dipende da quanto è accurato e meditato ed elaborato il soggetto. Io tendo a scrivere una prima stesura il più rapidamente possibile, scrivendo quanto più possibile di seguito per avere il senso del ritmo; quindi a una prima stesura arrivo in due o tre settimane”. “Pare che Paul Schrader abbia scritto la prima stesura di Taxi Driver in una manciata di giorni”, racconta Rampoldi. “Però non sappiamo da quanto tempo storia, tema e personaggi lavorassero dentro di lui. L’atto della scrittura arriva al termine di un lungo processo di pensiero, scelte, scarti. Inoltre, scrivere è riscrivere. Il lavoro di revisione può protrarsi per infinite stesure. Provando a dare una impossibile risposta, direi dai quattro mesi a un anno, con molte variabili”. Diventa indispensabile, a questo punto, capire una cosa. Visto quanto tempo richiede la scrittura di un progetto, gli sceneggiatori italiani sono tutelati? O almeno: il loro ruolo è al centro di dinamiche e considerazioni come succede nei mercati stranieri? Soprattutto dopo il successo degli ultimi venti anni della serialità televisiva. “A volte sì, a volte no. Mi piacerebbe dire un sì più convinto, ma la verità è che dipende da con chi lavori”, spiega Rampoldi. “Ci i sono società dove l’impegno degli sceneggiatori viene messo al centro in tutte le fasi del processo, altre dove, non appena consegni i copioni, smetti di esistere, sparisci in un buco nero. A parole tutti decantano l’importanza della scrittura nella serialità, ma non sempre chi scrive è messo in condizione di fare al meglio quello per cui viene pagato”. “C’è sicuramente più considerazione”, interviene Bises, “ma continuo a riscontrare episodi di superficialità rispetto al valore fondante della scrittura. Poi… possiamo davvero considerare gli ultimi anni come anni di successo per la serialità televisiva? A me sembra che a fronte di tanta quantità la qualità scarseggi”. Un piccolo passo indietro. Per uno sceneggiatore, al di là dei meccanismi narrativi o della costruzione delle scene, non c’è molta differenza tra scrivere un film o una serie tv. “Non c’è differenza di attenzione, o almeno non dovrebbe esserci”, sottolinea Bises. “Evidentemente realizzare una serie richiede moltissimo lavoro preparatorio in più. E quindi la differenza più grande sta nel tempo che un progetto richiede rispetto a un altro”. In una serie, continua Bises, l’impegno sembra non esaurirsi. “Per scrivere Gomorra ci sono voluti tre anni. Per M. due. E l’impegno non finisce mai, come invece può accadere con un film quando iniziano le riprese”. Visto che, come dicevamo prima, quasi sempre i primi a prendere l’iniziativa sono i produttori è interessante capire se c’è una storia che viene richiesta più spesso. “Nella serialità, dopo un momento di espansione e sperimentazione, si va verso scelte più sicure, almeno sulla carta. Siamo in una contrazione di mercato: si produce meno e viene meno anche la voglia di rischiare”, dice Rampoldi. “Si punta molto sulle IP, le proprietà intellettuali: libri bestseller, reboot, spin-off, altre parole rigorosamente inglesi, serializzazione di film, biografie di grandi personaggi. Il pubblico già li conosce in anticipo, è già affezionato alle loro storie. Per quanto riguarda i generi, mi sembra che il crime sia quello più richiesto”. Al cinema, invece, ci si affida di più ai remake. “È una strada che limita il rischio”, ammette Rampoldi, “ma che può impoverire il panorama”. “Ricordo un’epoca”, racconta Bises, “in cui se una serie aveva successo si scatenava una corsa a realizzare prodotti simili come se si potesse sfruttare un’onda, ma è totalmente insensato, anche per i tempi che richiede realizzare un film o una serie”. Chiaramente il discorso poi cambia a seconda del singolo sceneggiatore. Bises dice di provare ad affrontare sempre gli stessi temi, come i rapporti umani e la famiglia, sfruttando il genere e le sue derivazioni. A un certo punto, può succedere di sentire così tanto una storia da volerla dirigere in prima persona, passando dietro la macchina da presa. “È legittimo”, ammette Bises. “Io però continuo a pensare che siano due mestieri diversi. E se penso a una storia che mi appartiene profondamente, più che a girarla penso a trarne un romanzo. Almeno per ora”. “Chi scrive si è già girato il film in testa, ha associato un volto ai personaggi, ha immaginato stacchi di montaggio, costumi e scenografie”, spiega Rampoldi. “Per questo credo sia naturale che alcuni colleghi prima o poi sentano il desiderio di continuare quel processo interiore all’esterno. È quello che ho sentito io. Ma c’è da dire che è anche bello vedere le proprie storie raccontate in un modo diverso da come si erano immaginate”. Ritorniamo, dunque, alla domanda iniziale: quanto è complicato sviluppare un film o una serie in Italia? Di più: quante tutele ci sono, se ci sono, per chi li scrive? “Ci sono autori che hanno avuto la fortuna di imporsi e adesso hanno forza e potere contrattuale”, precisa Rampoldi. “A fronte di questi nomi, che sono pochissimi, ce ne sono molti altri, soprattutto giovani, che faticano a farsi pagare il giusto, a vedere valorizzato il proprio contributo. Vengono considerati meri esecutori, ingranaggi intercambiabili, forza lavoro da sottopagare, e le possibilità che hanno di crescere come autori in un contesto così difficile sono poche. È una battaglia culturale, sindacale e politica”. Il tema principale, insomma, è quello dei diritti: “A prescindere dal peso specifico dell’autore, che può portare ad accordi che prevedano quote dei proventi dell’opera finita o a compartecipazioni produttive, in generale gli sceneggiatori sono costretti a cedere tutti i diritti sulle proprie storie e, quel che è peggio, sui propri personaggi. Questo è per me il punto più importante da disciplinare contrattualmente”, sottolinea Bises. “Se io ho creato un mondo e dei personaggi e tu produttore da quel mondo e da quei personaggi estrai x stagioni o x sequel o prequel o spin-off cinematografici, io ideatore devo partecipare ai guadagni che quei prodotti generano a prescindere che scriva le x stagioni, sequel, prequel, spin-off successivi alla prima opera. Avviene così in qualsiasi ambito creativo ; non si spiega perché cinema e televisione debbano fare storia a sé”. Il quadro dell’industria audiovisiva italiana, tra grande e piccolo schermo, è estremamente complesso. E questo è piuttosto evidente dalle parole di Rampoldi e Bises. I numeri non sono mai solo numeri: dietro ci sono persone, idee, intenzioni. Resiste, ovviamente, il lato più commerciale. Eppure è innegabile come spesso si tenda ad appiattire tutto, a mischiarlo, a trarre conclusioni affrettate. Le analisi migliori sono le analisi che tengono conto dei dettagli, del microscopico, e che non cercano di banalizzare il discorso. Scrivere un film o una serie in Italia resta un compito incredibilmente impegnativo.