Alain Delon: da Rocco a Zorro, da il Gattopardo a Frank Costello, un mito senza tempo

Nessuno mai come Alain, perché Delon era enigmatico, inarrivabile, irresistibile. Con la sua morte, avvenuta il 18 agosto all’età di 88 anni, se n’è andato l’ultimo divo, il protagonista di un cinema costellato di stelle polari e non di generiche meteore destinate all’oblio. Non per caso la star francese è finita sulla copertina del disco degli Smith The Queen is Dead, mentre Madonna, I Baustelle e Andrea Mingardi gli hanno dedicato una canzone. Il suo sex appeal ha ispirato Paul Schrader per il personaggio di Richard Gere in American, Gigolò. Delon era uno dei pochissimi interpreti conosciuti e apprezzati in Cina, perché il talento non conosce confini. La svolta con Rocco e i suoi fratelli Della sua unicità si accorge subito un titano del calibro di Franco Cristaldi, quando l’attore è ancora un giovane semisconosciuto alla ricerca del ruolo che ti cambia la vita. E quel ruolo arriva nel 1960. Rocco e i suoi fratelli è la Sliding Door per Alain. Il regista del film, Luchino Visconti spiega così la sua scelta. “Delon a me pare sia aderentissimo. A me pare che sia giusto perché avevo bisogno di questo candore e nello stesso tempo di una certa forza, però persuasiva, io non so quale altro attore poteva farlo, Rocco. Tanto più che ha quella malinconia, di chi si sente che deve caricarsi di un certo odio, quando combatte perché istintivamente non vorrebbe. Rocco una specie di profeta disarmato”. E la poliedricità di Alain conquista anche Michelangelo Antonioni che nel 1962 lo chiama per L'Eclissi. L'attore si inserisce benissimo nelle geometrie milanesi immaginate dal maestro ferrarese. Angeli e demoni Ma Alain è in grando pure di essere la iena che sostituirà il Gattopardo. Ancora una volta diretto da Visconti, Delon mostra il proprio cuore di tenebra. Come sottolineato da Daniele Orazi, uno dei più grandi agenti cinematografici italiani, “c’è un come un denominatore che unisce i grandi artisti: nel profondo hanno subito un dolore, un trauma. Questo tormento interiore gli permette di andare in profondità e di rendere uniche le loro performance”. E Alain, tra la dolorosa separazione dei propri genitori e le esperienze di guerra in Indocina, soffre di quello che Giuseppe Berto chiamava Il male Oscuro. Ed è per questo che dietro il sorriso angelicato del Principe Tancredi Falconeri si cela il ghigno del diavolo. D’altronde anche Lucifero era un angelo. Alain Delon e la sua metà oscura Questa metà oscura consente a Delon di calarsi alla perfezione nel doppiopetto gessato con il il cappello borsalino d’ordinanza calato sulle 23 di tanti gangster protagonisti sul grande schermo. Da Le Samourai, ovvero Frank Costello faccia d’Angelo al Corey di I Senza nome, il crimine paga e paga bene se a interpetrarlo è Alain e a dirigerlo Melville. E poco importa della rivalità con Jean Paul Belmondo. Nella malavita, raccontata dal cinema, c’è spazio per entrambi. Le tenebre nel cuore con cui deve convivere Delon permettono al divo francese di rendere dolenti, credibili e, a loro modo, affascinanti personaggi marchiati dalla doppiezza. A partire dall’ufficiale William Wilson, ufficiale nato dalla penna di Edgar Allan Poe e protagonista di uno degli episodi di Tre passi nel delirio per arrivare a Mister Klein, il collezionista d’arte immaginato da Joseph Losey. In fondo, persino quando recita in una pellicola per famiglie come Zorro, di Duccio Tessari, l’attore nasconde la propria identità. La prima notte di quiete Alain è sempre un enigma, sfuggente e inafferrabile parimenti al Tom Ripley di Delitto in pieno sole. Forse è anche per questo che il suo talento lo ha reso immortale. Come il professore Daniele Dominici di La prima notta di quiete di Valerio Zurlini, il divo transalpino continuerà a passeggiare nella nostra memoria con il cappotto color cammello. Star di abbacinante bellezza, ombroso, ruvido e contraddittorio, talvolta prigioniero delle proprie nevrosi, Alain è la dimostrazione che l’arte è più forte della morte, mentre nello spazio e nel tempo riecheggia la celebe battuta del film di Zurlini. "Non c'è che la mancanza di libertà a darti certe ventate di allegria".