Lo scrittore Eraldo Affinati: "I miei studenti mi hanno insegnato la speranza"

Ha scelto di diventare un insegnante dopo aver avvertito una connessione quasi elettrica tra lui e i ragazzi, “come un campo magnetico” che l’ha suggestionato fin dalle prime supplenze. Anni dopo, nel 2006, Eraldo Affinati, scrittore e saggista, autore di “Le città del mondo” e “L'uomo del futuro”, insieme alla moglie Anna Luce Lenzi ha fondato la “Penny Wirton”, scuola gratuita di italiano per immigrati che oggi conta 65 sedi in tutta Italia, dal Friuli alla Sicilia, e si basa su un modello unico: niente voti, niente classi, e un rapporto uno a uno tra insegnanti e studenti. Ragazzi e ragazze difficili, a volte con alle spalle storie di solitudine e disperazione. Alcuni di loro hanno attraversato il Mediterraneo sui barconi, altri sono arrivati nel nostro Paese a piedi dalla rotta balcanica. Per questo, ricorda Affinati, bisogna sempre tenere a mente che “ogni studente è diverso dall’altro. Non si può scindere la persona dal contesto da cui proviene”. Professore, cosa le hanno insegnato i suoi studenti in questi anni? Mi hanno dato la speranza. Ho sempre insegnato a ragazzi difficili, negli istituti professionali o a giovani immigrati. Molto spesso ho avuto di fronte studenti che andavano male a scuola, eppure vedevo sempre in ognuno di loro la capacità di rialzarsi dopo essere caduti a terra. Una sorta di resistenza alle avversità: questo mi hanno insegnato. Come è nato il progetto delle scuole Penny Wirton? Io e mia moglie, anche lei docente, 18 anni fa decidemmo di fondare una scuola basata sul concetto dell’uno a uno, quindi avremmo avuto bisogno di tantissimi volontari e volontarie. All’inizio sembrava un’utopia, ma ci siamo riusciti. Da noi il rapporto tra docenti e alunni è basato sulla qualità della relazione umana. E lo stile educativo non prevede voti né registri. Da dove prende spunto il nome? Dal romanzo per ragazzi “Penny Wirton e sua madre” dello scrittore Silvio D’Arzo, dove il protagonista è un bambino abbandonato. Eravamo entrambi studiosi di questo autore e abbiamo pensato di intitolare a lui la nostra scuola perché i Penny Wirton di oggi sono i Mohammed, gli Omar, i Fariz: tutti i minori non accompagnati ai quali ogni giorno insegniamo l’italiano. Cosa la rende più orgogliosa del suo modello di scuola? I nostri volontari sono ragazze e ragazzi italiani che svolgono la PCTO, l’ex alternanza scuola lavoro. Li formiamo come docenti dei loro coetanei immigrati. E per me la soddisfazione più grande come professore è vedere una ragazza milanese o romana che insegna il verbo essere a un analfabeta africano o bengalese, che non avrebbe mai conosciuto fuori dalla nostra scuola. Questi mondi così lontani si scambiano esperienze, si arricchiscono a vicenda. Per me quella è la vera scuola. C’è una storia dei suoi studenti alla quale è particolarmente legato? Quella di Kaliq, un ragazzo africano che non sapeva se sua madre fosse viva o morta. Molti anni prima si erano dovuti separare per via della guerra civile. E quando l’ha ritrovata ha voluto che andassi con lui a conoscerla in Gambia. Questa è la storia che forse mi è rimasta più dentro. Per Kaliq quindi lei è molto più di un insegnante. Mi ha fatto riflettere che abbia voluto che lo accompagnassi io, la persona gli aveva insegnato a scrivere l’italiano. Ma in fondo il linguaggio serve a dare senso all’esperienza. Kailq aveva capito che soltanto se questa storia fosse stata scritta avrebbe avuto senso. Questo è il grande tema della lingua: quando la insegni formi anche la persona e il suo pensiero. Per questo insegnare è una grande responsabilità. Secondo lei il nostro è un Paese razzista? No, ma sicuramente c’è molta insicurezza nell’identità, e questa può portare a una reazione che può sembrare razzista. Le faccio un esempio: un alunno è era riuscito a raggiungere la Penny Wirton perché si avvicinava ai passanti con un bigliettino con annotato l’indirizzo della scuola, ma loro si scansavano credendo che chiedesse l’elemosina. Quello non è propriamente razzismo: è paura del contatto, diffidenza. Quindi anche indifferenza a ignoranza. È quell’elemento che dobbiamo superare. Quello della scuola senza voti è un modello potenzialmente applicabile a tutto il sistema scuola? Finché resterà il valore legale del titolo di studio sarà molto difficile poter eliminare i voti. Quello che si dovrebbe fare è lavorare a ingranaggi scoperti: il voto non dovrebbe essere usato come un’arma di giudizio, ma rappresentare l’esito finale di un percorso che si è costruito prima con i ragazzi. I ragazzi oggi soffrono di ansia da prestazione. Faticano ad affrontare il fallimento? Certamente sì e dovrebbero imparare, però penso innanzitutto che l’ansia da prestazione con cui convivono sia un fallimento della scuola. Se i ragazzi hanno paura dell’interrogazione, significa che noi adulti stiamo sbagliando qualcosa. Perché la scuola non dovrebbe essere un luogo in cui dover superare gli ostacoli, fare agonismo. La scuola dovrebbe essere l’intensificazione della vita. Dovremmo insegnare ai ragazzi che i voti non li definiscono? Sì, perché non sono altro che numeri frutto di una convenzione. Non rappresentano la verità su una persona, ma uno strumento che gli uomini hanno creato per definire un giudizio. Ognuno di noi è diverso, ed è importante ricordarlo. Lo stesso voto non ha lo stesso valore per ogni alunno. Nei suoi libri ha scritto di luoghi e città. Quali dovrebbero essere i luoghi della scuola? Credo che gli spazi non dovrebbero essere limitati all’aula, lo dissero anche i più grandi educatori ed educatrici, da Maria Montessori a Don Milani. L’aula non dovrebbe essere l’unico luogo, la scuola dovrebbe rappresentare la vita, è il luogo dove conoscere la realtà. E questo può accadere dentro alla classe, come fuori. Poi oltre ai banchi e alla cattedra immagino dei gruppi in movimento. Cos’hanno in comune insegnamento e scrittura? Sia lo scrittore che l’insegnante sono i responsabili della parola: di quella scritta il primo, di quella orale il secondo. Essere i custodi della parola è una grande responsabilità.