Più pop ma niente Netflix, il direttore spiega la Mostra di Venezia: "Riempiremo le sale"

Nel corso degli ultimi anni, Alberto Barbera è stato in grado di anticipare le mode e di riconoscere il successo prima di tutti – prima della critica, degli addetti ai lavori, del pubblico, dei festival e del cerchio magico dei produttori e dei distributori internazionali. Come direttore della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha saputo in tempi non sospetti valorizzare il talento dei registi, dare il giusto spazio e la giusta visibilità a film che altrove, probabilmente, sarebbero passati in sordina. Ha accettato la scommessa dello streaming e ha valutato le proposte delle varie piattaforme soffermandosi unicamente sulla qualità dei film. Soprattutto, però, è riuscito a ridare vita a un’istituzione come la Mostra, rimettendola al centro di tanti discorsi e dandole una nuova importanza: più pop e meno seriosa, pronta ad accogliere le grandi star ma a non lasciarsi schiacciare dal loro potere mediatico; interessata all’esperimento ma non accecata dalla voglia di arrivare prima rispetto alla competizione. La programmazione dell’81° edizione, che si terrà dal 28 agosto al 7 settembre, rappresenta l’ennesimo passo in avanti per il percorso della Mostra e per il tentativo di Barbera di arrivare a una sintesi onnicomprensiva dell’esperienza cinematografica. Alla fine, sottolinea il direttore, tutto si riduce alle storie e alla loro capacità di parlare al pubblico. Quante proposte di film ricevete, mediamente, per il concorso principale? I lungometraggi che sono stati inviati alla selezione di quest’anno, tra documentari e film di finzione, sono stati 1.967 . A questi, vanno poi aggiunti 2.171 cortometraggi, in evidente crescita rispetto al passato. C’è stato un effettivo rallentamento nella produzione e nello sviluppo di progetti dopo lo sciopero di categoria che c’è stato negli Stati Uniti? Il rallentamento c’è stato di sicuro, ma ha riguardato solo le produzioni hollywoodiane: hanno risentito pesantemente degli effetti del doppio sciopero di sceneggiatori e attori. Tuttora, la produzione hollywoodiana stenta a recuperare il terreno perduto e a ritrovare gli standard produttivi precedenti non solo allo sciopero, ma anche agli effetti della pandemia causata dal Covid. E nel resto del mondo, invece? La produzione nel resto del mondo tende a crescere rispetto al passato: effetto della continua domanda di contenuti generata dalle piattaforme di streaming e dalla comparsa sulla scena produttiva di paesi privi di una vera e propria tradizione cinematografica. In Italia com’è la situazione? Qualche anno fa, ha detto che si produce troppo. È ancora così? Si è prodotto molto, troppo, negli ultimi due/tre anni, passando da 100-120 titoli annui a oltre 350. Ma nella prima metà del 2024 abbiamo assistito a un blocco pressoché generalizzato delle produzioni cinematografiche, a causa del ritardo nell’approvazione dei nuovi meccanismi legislativi che regolano l’erogazione del tax credit e dei sostegni pubblici alla produzione. Ci sono state eccezioni, soprattutto da parte delle società economicamente più solide o che comunque avevano deciso come investire le loro risorse nel corso dell’anno precedente. In questo modo, hanno potuto finire lo sviluppo dei loro film senza risentire dei vari ritardi. Evidentemente, gli effetti di questo arresto produttivo si faranno sentire l’anno prossimo. Uno dei temi dell’81° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è il nuovo rapporto tra pubblico e fruizione di prodotti, che diventano sempre più lunghi e che talvolta vengono addirittura serializzati. In che modo le abitudini degli spettatori sono cambiate? Il cambiamento nelle abitudini degli spettatori è la conseguenza degli anni in cui la pandemia ha costretto alla chiusura delle sale cinematografiche per lunghi periodi, portando i consumatori di film a cercarli sulle piattaforme e creando di fatto le condizioni per ribaltare i rapporti di forza tra il circuito tradizionale delle sale cinematografiche e i servizi streaming. Sulle piattaforme, gli spettatori non trovano soltanto film, ma anche e soprattutto una quantità impressionante di serie, che li abituano a fruire di prodotti di lunga durata, narrativamente molto più elaborati e coercitivi. Non stupisce che molti registi di cinema si facciano tentare dalla libertà narrativa offerta dalla serialità o che i film post pandemici inseguano la lunghezza come modalità per contrastare il predominio delle serie, imitandone alcune caratteristiche. Quest’anno in concorso non c’è nemmeno un titolo Netflix: non ci sono state proposte? Qualcosa è cambiato editorialmente anche nel colosso americano? Si tratta di una pura coincidenza temporale. Il responsabile della produzione di film, Scott Stuber, si è dimesso alla fine del 2023, interrompendo di fatto una lunga serie di produzioni di qualità che sono culminate nella conquista di un Oscar con il film di Alfonso Cuaron, Roma. Il nuovo responsabile è entrato in funzione solo a marzo, e non conosciamo ancora i nuovi orientamenti che presiederanno alle sue scelte. Ma posso dire che sono al corrente di almeno quattro titoli d’autore che saranno pronti l’anno prossimo e che spero di poter vedere in tempo per la selezione di Venezia 2025. Assisteremo sicuramente a un ritorno in forze di Netflix. Qual è, oggi, il ruolo del festival nel riavvicinare le persone all’esperienza della sala cinematografica? C’è, secondo lei, un problema di comunicazione nel cinema? Credo che ci sia un enorme problema di comunicazione, che contribuisce ad allontanare gli spettatori dall’esperienza della sala. Sono venuti meno i tradizionali strumenti di informazione sulle uscite dei film, che un tempo allertavano i potenziali spettatori in prossimità dell’arrivo dei nuovi titoli. I flani sui quotidiani, le affissioni murali, gli spot pubblicitari radiofonici e televisivi, le trasmissioni tv sul cinema sono ormai reperti di un passato prossimo, in cui avevano funzionato egregiamente e di cui, oramai, non resta traccia. E la comunicazione online, tra piattaforme digitali e social? Purtroppo, la comunicazione sui social, ancora inadeguata, non riesce a svolgere la funzione che avevano un tempo gli altri strumenti che ho citato. Il risultato è che anche per un addetto lavori come me è difficile sapere quale film è attualmente in programmazione o sta per arrivare sugli schermi tradizionali. Come alimentare la curiosità e il desiderio di cinema in queste condizioni? Glielo chiedo anche io. I festival – che sono in numero crescente, con un successo di pubblico alquanto strabiliante – svolgono certamente un ruolo importantissimo nel promuovere il cinema di qualità e nel riaffermare la centralità della sala, facendo scoprire o riscoprire il piacere unico e irripetibile dell’esperienza della visione collettiva in condizioni ideali. Ma? Ma non possono sostituire completamente gli strumenti d’informazione e di promozione adeguati ai tempi e in grado di garantire l’indispensabile continuità di rapporto con il pubblico potenziale, che pure esiste e deve solo essere intercettato e adeguatamente motivato. Venezia si trova in una posizione “privilegiata”, perché può fare da crocevia sia per il cinema internazionale che per quello italiano. Di che cosa crede che ci sia bisogno, oggi, nella nostra industria? Di sceneggiature migliori e più lavorate, di produttori capaci di osare di più e di avere meno pregiudizi nei confronti delle donne che aspirano a diventare registe. Di storie forti, adeguate a tempi, che guardano avanti e non indietro. Di registi, sceneggiatori, produttori e distributori che si pongono il problema di come coinvolgere il pubblico, soprattutto quello più giovane che è il futuro del cinema e che non si può pensare di sedurre con linguaggi e contenuti che appartengono al passato. Infine, di società di produzione più grandi, solide a strutturate, che non rischino di fallire per ogni film non riuscito o che non riesce a trovare subito il suo pubblico. Si parla spesso della sovrapproduzione di sequel, prequel e spin-off. Quest’anno in Mostra ce ne sono diversi: uno, Beetlejuice 2, è il film d’apertura, un altro, Joker 2, è in concorso. Quello sui sequel è solo un pregiudizio o è vero che, talvolta, si scommette sulla soluzione più facile dal punto di vista creativo e produttivo? Non è una novità che il cinema, in particolare quello americano, non ami correre rischi – soprattutto in un periodo di grandi difficoltà economiche e incertezze strategiche – e che preferisca ricorrere all’usato sicuro dei sequel e dei vari franchise, invece che affrontare i rischi connessi all’inedito. Ma non sempre un sequel è una pura ripetizione del già visto, come dimostra il sorprendente Joker 2. Invece che cosa mi dice dei film italiani che avete selezionato? C’è un filo rosso che li unisce, dal punto di vista contenutistico e stilistico, oppure ognuno è profondamente differente dall’altro? I film italiani selezionati sono diversissimi tra di loro, ed è il primo elemento di valutazione positiva perché presuppone la capacità di osare e puntare su qualcosa di nuovo e inatteso. Per limitarci al concorso principale, c’è un campione del cinema d’autore classico come Gianni Amelio, con un film che parla del passato ma allude chiaramente al presente. Luca Guadagnino, invece, persegue una propria personale ambizione di film internazionale che guarda ben oltre i confini del nostro piccolo mercato cinematografico, con un film in inglese interpretato da grandi star mondiali. Maura Delpero sceglie una strada opposta, rifacendosi esplicitamente alla grande lezione del cinema di Ermanno Olmi , per rinchiudere la sua storia in un piccolo villaggio di montagna al confine con l’Austria. Grassadonia e Piazza affrontano ancora una volta il tema della mafia sfruttando la loro consueta cifra stilistica, che al realismo di denuncia preferisce il clima survoltato del grottesco e del fantastico. Infine, Giulia Steigerwalt insegue un linguaggio dichiaratamente pop per raccontare l’incredibile storia di Riccardo Schicchi, il sognatore che ha cambiato il costume e la morale del nostro Paese introducendo per primo la pornografia gentile di Diva Futura. È uno dei mantra che ripete una certa critica, quindi lo chiedo anche a lei: lo streaming ha davvero messo in crisi il cinema? Più che il cinema in sé, ha messo in crisi il sistema tradizionale basato su una filiera che per cento anni circa ha garantito il suo successo: studi di produzione, distributori più o meno indipendenti e il circuito capillare delle sale cinematografiche, diffuse in tutto il mondo. Portando il film direttamente a casa dello spettatore, ha interrotto la catena che contava sull’abitudine della frequentazione in sala. Un’abitudine che occorre ristabilire stando attenti a raggiungere un equilibrio non impossibile fra i due sistemi distributivi. Perché possono chiaramente coesistere a condizione che uno non fagociti del tutto l’altro. Per fare questo, però, occorre individuare nuove strategie di marketing e nuove modalità per motivare il pubblico, soprattutto quello più giovane. Se c’è un linguaggio che negli ultimi anni sta andando molto bene, dimostrando tutto il suo potenziale, è l’animazione. Ci sono progetti a Venezia per provare a valorizzarlo ulteriormente? In realtà, no. Sono sempre pochi i film d’animazione che ci vengono proposti e ammetto che non facciamo molto per convincere i produttori a inviarceli. Quelli che vorremmo invitare, poi, preferiscono magari festival specializzati, dai quali ottengono forse maggiori risultati in termini di promozione e di marketing. È una lacuna alla quale dovremo porre rimedio. Qual è l'ultimo film che ha visto al cinema e che le è piaciuto particolarmente? Megalopolis di Francis Coppola. Lo so che deve ancora uscire, ma l’ho visto durante una proiezione privata, lo scorso aprile, in un cinema IMAX . È l’esperienza cinematografica più entusiasmante che ho avuto negli ultimi mesi. Un capolavoro imperfetto, al di là dei suoi difetti che contano ben poco rispetto alla generosità estetica, creativa e visiva che offre allo spettatore un’emozione rara e quasi senza precedenti.