La musica come commodity? Come gli album tornano a brillare

Sempre più spesso i non-nativi digitali, ovvero coloro che hanno vissuto il periodo dei cd, e magari anche quello delle musicassette e dei vinili, si ritrovano a parlare e a riflettere di quanto sia cambiato il mercato musicale e di come la tecnologia abbia influito profondamente sul modo di fruire la musica. Negli ultimi tempi sono usciti anche molte serie tv che aiutano a comprendere questa profonda trasformazione: l'ultima in ordine di uscita è la docuserie “Come la musica divenne libera” su Paramount+ sull'ascesa e sul declino dei gruppi di pirateria legate agli mp3 e al peer-to-peer oppure la serie “The playlist” su Netflix, che racconta la nascita e l'evoluzione di Spotify visto da vari punti di vista attraverso alcuni personaggi decisamente romanzati ma che permettono di capire la complessità legata alla nascita della prima grande piattaforma di streaming legale. Il dominio dello streaming Lo sappiamo tutti come lo streaming si sia imposto in modo piuttosto rocambolesco, più o meno nella prima parte degli anni dieci, come formato principe per l'ascolto della musica. Da lì in poi il settore musicale è diventato un continuo territorio di scoperta, con regole tutte da reinventare, con molti che iniziavano a domandarsi come sarebbe cambiata la musica, cosa gli artisti avrebbero dovuto organizzare per farsi ascoltare e guadagnare qualche soldo e come sarebbe cambiata la filiera musicale. Due cose erano piuttosto certe, una riguarda la domanda, l'altra l'offerta di musica: la prima è che i grandi appassionati e consumatori di musica avrebbero potuto godere e ascoltare tantissima musica pagando una somma molto più bassa rispetto al passato, l'altra è che nella fetta di mercato legata al pop – verosimilmente quella più grande – il concetto di album rischiava di avere sempre meno rilevanza. Gli artisti quindi tendevano ad ascoltare più i manager e gli sviluppatori dell'algoritmo delle piattaforme piuttosto che i discografici che nei decenni passati si erano dimostrati assai poco lungimiranti e previdenti. Più singoli e meno album Gli esperti di Spotify consigliavano quindi che per massimizzare i risultati era necessario pubblicare poco e spesso: quindi era meglio organizzare la propria carriera in tante piccole uscite da una o due canzoni, per fare in modo che il proprio nome continui a girare, aumentando le probabilità che una delle tracce finisca in una di quelle playlist super virali o in qualche fortunato trend sui social che garantiscono milioni di streaming in giro per il mondo e portano facilmente un po' di denaro in cassa. Quindi accade che nel mondo mainstream, e specialmente quello legato ai generi rap e r&b, molti artisti pubblicano album che raccolgono per il 60-70% materiale già uscito come singolo, e la pubblicazione del disco è esclusivamente ad uso e consumo dei fan più accaniti. Una canzone per ogni contesto Tuttavia questa logica negli ultimi anni sta un po' perdendo peso e rilevanza e questo lo notiamo in certi ambiti non propriamente mainstream - anche se ormai la vecchia distinzione tra mainstream e indie ormai non ha più tanto senso. Come succede spesso in questi casi, quando la situazione si polarizza troppo da una parte, si aprono sul mercato una serie di possibilità e opportunità sia dal lato dell'offerta che della domanda. In questa situazione in cui la musica sembra diventata un prodotto sterile se non proprio una commodity, ovvero un prodotto indistinto a cui le persone prestano sempre meno attenzione, sta emergendo sempre più un nuovo legame con la musica intesa come relazione. Ecco quindi che i contesti, i ruoli, i formati e le forme di distribuzione alternative iniziano ad essere sempre più rilevanti. In particolare il modo in cui la musica ci arriva diventa parte stessa del progetto musicale. Cindy Lee e il disco "introvabile" Ecco un paio di esempi che spiegano il fenomeno. Uno dei dischi più lodati dalla critica in questo 2024 e che sicuramente troveremo tra i migliori dischi dell'anno è “Diamond Jubilee” di Cindy Lee, nome d'arte dell'artista non-binary canadese Patrick Fegel che si esibisce come drag. Il disco dura circa due ore ed è realizzato interamente da Fegel con l'aiuto del produttore e anch'egli polistrumentista . Un disco bizzarro e molto affascinante che contiene il pop degli anni Sessanta, la psichedelia dei Settanta, il suono radiofonico degli Ottanta e il lo-fi dei Novanta, con un'atmosfera che ricorda quelle di David Lynch. Il disco però non si trova in nessuna piattaforma streaming perché Cindy Lee ha un atteggiamento piuttosto critico nei confronti di Netflix e chi vuole acquistare il disco deve scaricarlo in formato WAV da un sito realizzato su Geocities mandando 30 dollari, oppure ascoltarlo su YouTube. Ecco quindi che anche andare a cercare il disco in rete, cercare di capire come scaricarlo, compiere insomma un percorso di ricerca, come quello che facevano 25-30 anni fa per trovare un cd tra i vari negozi, ci pone in un contesto diverso in cui la musica acquisisce un valore, ma soprattutto un senso più specifico. Canzoni da 32 minuti con i Sault Un altro progetto musicale molto apprezzato dalla critica e dagli amanti di musica di qualità sono i Sault, collettivo inglese di r&b, soul e afro-beat, di cui non conosciamo precisamente i componenti e pubblicano i loro dischi sempre con modalità di distribuzone alternative e complesse. L'ultimo è uscito il 6 luglio e si intitola “Acts of faith” ed è un brano unico di 32 minuti diviso in 4 atti tra l'acid jazz, il gospel e le orchestrazioni di Quincy Jones. Anche in questo caso la distribuzione è stata farraginosa: inizialmente lo hanno reso disponibile per il download gratuito con un link su Dropbox per un solo giorno, dopo di che è sparito e ora si trova su YouTube. I Sault hanno realizzato ben 12 dischi in meno di cinque anni, sempre con distribuzioni non convenzionali che richiedono da parte del pubblico sempre una ricerca e un piccolo sforzo, creando quindi un contesto in cui l'impressione è che la musica sia “tirata” da noi e non “spinta” verso di noi da qualcuno . Sono piccoli segnali provenienti da nicchie di qualità, ma che ci fanno capire come la creazione di un nuovo contesto permetta di rivitalizzare e rivalorizzare la musica che non per forza debba essere collegata alla dimensione economica. La musica quindi come relazione. Proprio da qui forse dobbiamo ripartire.

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