Festival di Venezia, i dipinti di Van Gogh al Lido con Willem Dafoe

Spettacolo

Denise Negri

Willem Dafoe (Getty Images)
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Nel film "At Eternity's gate" di Julian Schnabel i colori e le visioni del pittore olandese, che per il regista “più di ogni altro ha influenzato la pittura del Ventesimo secolo”

La pittura incontra il cinema, e il risultato è uno dei quadri più belli visti fino ad ora in concorso: “At Eternity’s gate”, film di Julian Schnabel con Willem Dafoe.

Un omaggio a Van Gogh

A Venezia 75 ho visto il mondo attraverso gli occhi di Vincent Van Gogh. C’era tanto giallo, il suo colore preferito, c’erano il verde, il blu e il rosa. C’erano il bianco della luce del sole abbagliante e il grigio del vento freddo anche quando, verso la fine dei suoi anni, tutto è diventato più sfocato, confuso e opaco. Una difficoltà nel mettere a fuoco la realtà che andava di pari passo con la sua depressione, i suoi deliri (dicono di lui gli storici), le sue visioni. Il ritratto che il pittore, prima ancora che regista, Julian Schnabel fa del grande olandese che secondo lui “più di ogni altro ha influenzato la pittura del ventesimo secolo” è un omaggio vivo, tangibile e liberatorio. Un vero e proprio atto d’amore, in cui ha anche insegnato a Willem Dafoe a dipingere.

Il film di Schnabel  

“At Eternity’s gate” non è una biografia, non credo davvero gli interessasse farla, è piuttosto un’immersione nell’arte viva e scandalosamente innovativa di Van Gogh. “Credo che Dio mi abbia fatto nascere nel periodo sbagliato e la gente mi capirà dopo”, disse il pittore a un prete di provincia, quando nessun medico riusciva a diagnosticare esattamente di quale disturbo soffrisse. Nessuna violenza e nessuna ira in lui, nemmeno nella famosa auto amputazione dell’orecchio sinistro, piuttosto il ritratto di un uomo sensibile e solitario, persino dolce, totalmente immerso nella natura e da Lei stregato. Era certamente lontano dalle convenzioni comuni, non era abituato a ricevere attenzione da parte della gente, difficile pretendere che sapesse ridarla. Splendido nel film il rapporto con il fratello Theo, che conosciamo per le lettere che si scrissero e che si basava su un amore profondo fatto di solidarietà e sincerità. E poi nel film c’è quella fretta nel dipingere, quell’urgenza di dover inondare la tela di colori calcati – fino a rendere “il quadro simile a una scultura”, come gli diceva l’amico Paul Gauguin – che aiuta lo spettatore ad avvicinarsi al genio. Al suo bagliore, alla sua profondità, al suo buio.  

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