L'Europa al bivio, cambiare o condannarsi all'irrilevanza

Si è chiuso da poco il Festival dell’economia di Trento il cui tema quest’anno era "Rischi e scelte fatali. L’Europa al bivio". Che sia a un bivio, non c’è dubbio. Anche se non è certo il primo, è forse il primo che si svolge in un mondo che è palesemente globalizzato, un mondo in cui si confrontano due superpotenze in lotta tra loro per l’egemonia economica e politica del pianeta. In un mondo siffatto, la logica ci dice che il Vecchio Continente potrà avere un ruolo rilevante solo se riuscirà a essere unito. Anche il più grande Paese europeo, la Germania con i suoi 83 milioni di abitanti, vale tanto quanto una provincia cinese . Non parliamo della Francia, nonostante la sua cosiddetta grandeur! L’impressione però è che, purtroppo, di fronte al bivio che sta fronteggiando, l’Europa scelga il percorso più facile: quello della prosecuzione dello status quo. Ora, non c’è dubbio che di strada ne abbiamo fatta parecchia dalla fine della Seconda guerra mondiale nel costruire istituzioni comunitarie, sia in termini di politiche che in termini di processo decisionale . Ma per entrambi questi aspetti siamo ormai fermi in mezzo al guado. La cosa è ben illustrata da due principali problemi. Il primo, relativo alle politiche, riguarda la potenza finanziaria dell’Unione. Il bilancio dell’Unione è minuscolo: vale l’1% del Pil europeo tanto sul lato della spesa quanto su quello delle entrate. Peraltro, queste ultime sono prevalentemente costituite da trasferimenti dagli Stati membri, riducendo pesantemente l’autonomia decisionale dell’Unione. Il bilancio italiano, rispetto al Pil, è cinquanta volte più grande di quello comunitario. Il bilancio centrale dei più decentrati Stati federali è di venticinque volte più grande. L’Europa ha pochi soldi e senza soldi si fa poco. Il Next generation EU è stato visto come un evento una tantum giustificato da una circostanza eccezionale . L’appello del Rapporto Draghi a muoversi insieme, con una capacità fiscale centralizzata, per affrontare le esigenze di investimento del nostro continente sembra non aver impressionato particolarmente gli Stati membri: la Germania, per esempio, procede per conto suo, fra l’altro con un programma di spesa difficilmente conciliabile con le nuove regole europee sui conti pubblici da essa stessa approvate. Anche il programma di riarmo proposto dalla Commissione Europea è per quattro quinti basato sul debito di singoli Stati, non di debito comune. Il secondo problema è relativo alla governance. Il diritto di veto è ancora ampio e include, criticamente, la revisione dei Trattati alla base dell’Unione. Esso si applica alle decisioni di politica estera, area particolarmente sensibile in questo momento di tensioni geopolitiche. E si applica a un’altra area critica, quella della tassazione: per centralizzare maggiormente la tassazione, come sarebbe necessario per rafforzare il bilancio europeo, occorre l’unanimità. L’Europa si trova a un bivio. È lo stesso bivio che venne affrontato secoli fa dagli Stati Uniti d’America. Gli Articles of Confereration che regolavano la nazione americana nei sui primi anni di vita dopo la dichiarazione di indipendenza nel 1776 prevedevano il diritto di veto e non attribuivano un potere fiscale alle istituzioni dell’Unione che non avevano soldi e dovevano contare sui trasferimenti degli Stati Membri. Gli Stati Uniti ci misero pochi anni per capire che questo assetto istituzionale non poteva funzionare. Nel 1789 entrò in vigore l’attuale Costituzione che eliminava il diritto di veto e attribuiva al Congresso potere di imposizione. Lì nacquero davvero gli Stati Uniti d’America. Non dico che l’Europa debba arrivare a tanto in tempi brevi. Ma di fronte al bivio che ci fronteggia, se continuiamo sulla strada attuale, saremo condannati, in un mondo globalizzato, all’irrilevanza.

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