L'ex Ilva brucia ancora: torna il buio sul futuro di Taranto

A Taranto, ormai da tredici anni, politica e magistratura si scontrano sulla più grande acciaieria d’Europa. Hanno iniziato a farlo nel 2012, dopo il sequestro dell’area a caldo e gli arresti che segnarono l’inizio della vertenza Ilva, e continuano ora, nel bel mezzo di una trattativa nella quale sono in molti a riporre le loro speranze per un futuro finalmente green di quella che per molti è stata e continua ad essere la “fabbrica dei veleni”. A scatenare l’ultimo scontro, un incidente, il 7 maggio scorso, nell’Afo1, l’altoforno più importante del siderurgico tarantino, ristrutturato e riattivato in pompa magna il 15 ottobre dello scorso anno, con il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ad azionare, a favore di telecamera, l’interruttore della ripartenza. Le immagini dell’incendio sono impressionanti, e hanno fatto il giro del web. Nessun operaio è rimasto ferito, per fortuna, ma chi c’era, racconta di scene apocalittiche, con diversi lavoratori salvi per miracolo. Ci si aspetterebbe, dopo la tragedia mancata, che qualcuno si interroghi sul perché un altoforno rimesso a nuovo da appena sette mesi possa prendere fuoco in quel modo, e invece, azienda e ministro sembrano più preoccupati dalle sorti di quell’impianto, senza il quale gli azeri di Baku Steel, ad un passo ormai dall’acquisire il gruppo ex Ilva, potrebbero decidere, legittimamente, di defilarsi. Ed ecco allora la nuova polemica con la Procura, che dopo aver immediatamente sequestrato l’altoforno, negandone la facoltà d’uso, avrebbe invece ritardato, secondo azienda e ministro, nell’autorizzare i lavori di messa in sicurezza necessari per lo spegnimento controllato e senza danni irreparabili, dell’impianto stesso. La circostanza verrà smentita dalla Procura, con un dettagliato comunicato stampa a firma del Procuratore Eugenia Pontassuglia, sta di fatto che l’azienda ne farà scaturire la decisione di allargare le già ampie maglie della cassa integrazione. Il nuovo piano, che i tre commissari presentano da Taranto ai rappresentanti dei lavoratori, prevede la richiesta per 3926 dipendenti, di cui 3538 solo a Taranto. Il fermo dell’Afo1 provocherà un dimezzamento della produzione: queste le ragioni dell’azienda, condivise dal ministro Urso che non nasconde le preoccupazioni per la trattativa con gli azeri di Baku Steel. Ma per i sindacati, che ricordano come loro stessi da anni lamentino la pessima manutenzione degli impianti, l’incidente del 7 maggio è solo un pretesto per coprire gli errori e le omissioni nella gestione del siderurgico. Per Rocco Palombella, segretario generale Uilm e voce storica del sindacato tarantino, la situazione è precipitata e non c’è più alcuna possibilità di vendere. Per salvare l’ex Ilva ed evitare una catastrofe occupazionale ed ambientale, il Governo, secondo Palombella, “deve assumersi in fretta le proprie responsabilità, nazionalizzando e decarbonizzando l’azienda”. Intanto, le associazioni che a Taranto chiedono da sempre la chiusura dell’acciaieria restano, per ora, alla finestra. “Continueremo a farlo”, garantisce Raffaele Cataldi, uno dei fondatori del Movimento dei lavoratori e cittadini liberi, che recentemente ha dato alle stampe Malesangue, un libro nel quale racconta la sua esperienza di operaio contro il sistema.

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