Perché il Fondo monetario internazionale rivede in negativo tutti i Pil mondiali

Dalla lettura del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale pubblicato ieri traspare una notevole frustrazione. Le cose non andavano poi male nel mondo: dopo un prolungato e difficile periodo di shock senza precedenti , le cose stavano migliorando. L’inflazione stava tornando su livelli normali e la crescita del Pil mondiale era intorno al 3%, con un livello del Pil vicino a quello potenziale. Si acuivano alcuni squilibri commerciali, ma questo era dovuto soprattutto a fattori interni: la debolezza della domanda domestica cinese aveva spinto le imprese di quel Paese a cercare maggiori sbocchi verso l’estero e l’aumento a un tasso inusuale del consumo delle famiglie americane aveva peggiorato il deficit esterno statunitense. Niente che non si potesse curare con un riequilibrio delle politiche di bilancio: espansione in Cina e contrazione negli USA, correggendo una posizione del bilancio federale insostenibile nel lungo periodo. Insomma, uno scenario tranquillo. E che accade invece? Inizia una guerra dei dazi che sconvolge il commercio mondiale, attraverso effetti diretti e indiretti, con un aumento dell’incertezza a livelli che non si vedevano da almeno quindici anni. Risultato: una sfilza di segni meno nella tavola che descrive le revisioni nelle previsioni del Pil per tutto il mondo. La revisione più forte riguarda gli stessi Stati Uniti: -0,9% quest’anno per effetto di un rallentamento in corso anche prima del Liberation Day, dell’effetto diretto dei dazi e, soprattutto dell’incertezza. La recessione sarebbe evitata solo perché l’economia americana partiva, comunque, da una dinamica robusta: il Pil crescerebbe dell’1,8% quest’anno e dell’1,7% il prossimo. Ma la probabilità di una recessione sarebbe salita dal 25% al 37%. Penalizzata in modo significativo anche la Cina: il suo tasso di crescita viene ridotto di 0,6% quest’anno, anche se resterebbe al 4%. Insomma, i due principali protagonisti della guerra dei dazi, ne farebbero maggiormente le spese. Al 14 aprile, e quindi dopo il parziale passo indietro di Trump, i dazi americani sarebbero saliti al livello medio più alto da un secolo, passando dal 3% di inizio anno al 25%. I dazi americani sulla Cina sarebbero ora in media del 115%; quelli cinesi sugli USA del 146%. Lì è la vera guerra, il resto, in confronto, è roba da poco. Se non si può dire che tra i due litiganti il terzo goda, secondo il FMI il rallentamento in Europa sarebbe più contenuto: il Pil dell’euro zona è rivisto verso il basso dello 0,2% . Questo però grazie anche a una spettacolare Spagna in crescita del 2,5% nel 2025, l’unica revisione verso l’alto nel biennio tra tutti i Paesi di una certa dimensione. L’Italia crescerebbe dello 0,4% nel 2025, uno 0,2% meno di quanto previsto dal governo nel recente Documento di Finanza Pubblica, e dello 0,8% il prossimo anno. Economia piatta per la Germania quest’anno, ma in ripresa il prossimo , grazie anche al programma di spesa per difesa e infrastrutture annunciato poche settimane fa. Tutto sommato, il mondo se la caverebbe senza troppi danni: il tasso di crescita del Pil mondiale scenderebbe al 2,8% quest’anno e tornerebbe alla velocità standard degli ultimi anni il prossimo. Lo shock dei dazi non sarebbe comparabile né con quello della crisi economica e finanziaria globale nel 2009 , né del Covid nel 2020 . Non mi sembra irrealistico nell’ambito delle ipotesi di base del FMI, secondo cui le cose si fermerebbero al punto in cui siamo, senza ulteriori aumenti dei dazi, senza ulteriori conseguenze per il sistema finanziario e senza l’inizio di un circolo vizioso tra cali di domanda e di Pil e aumento ulteriore dell’incertezza. Il WEO considera però brevemente l’effetto di un inasprimento della guerra dei dazi: nessuna catastrofe nell’immediato, ma abbasserebbe il livello del Pil di un altro 1% nel lungo periodo.

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