Pausa sui dazi per tutti ma non per la Cina: a cosa mira Trump?

La guerra commerciale Usa-Cina è senza limiti e sta portando l’economia globale in un territorio inesplorato. Nella giornata di ieri il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato una pausa di 90 giorni delle tariffe imposte il 2 aprile per buona parte delle nazioni che hanno accettato di trattare con Washington, ma non per Pechino. Con le nuove imposizioni, le quarte da inizio mandato e le terze dal “Liberation Day”, la Cina vedrà un dazio del 125% applicato a tutte le sue merci in entrata negli Usa, a cui corrisponde una tariffa dell’84% da parte della Repubblica Popolare. Parliamo di un confronto diretto tra sistemi economici che non ha eguali dalla fine della Guerra Fredda e che sta trasformando la sfida tariffaria in un duello a tutto campo con cui Trump mira, essenzialmente, a creare un ‘cordone sanitario’ attorno Pechino. Obiettivo decoupling? Washington si è resa conto del fatto che uno degli obiettivi della guerra commerciale, ovvero favorire il ribasso del costo del debito pubblico statunitense spingendo al suo acquisto gli operatori di mercato in alternativa alle azioni in calo o nel quadro di negoziazioni per rimuovere i dazi, non sta andando in porto. Il presidente, dunque, si concentra sulla seconda, importante priorità: accelerare il disaccoppiamento tra il sistema economico americano e quello cinese, favorendo nel contempo la reindustrializzazione degli Stati Uniti. La scelta di mantenere i dazi contro la Cina e di trattare con tutte le economie dell’area dell’Indo-Pacifico, dal Giappone al Vietnam, mira a favorire l’interscambio tra Washington e i suoi partner di oltre oceano danneggiando i margini, il surplus commerciale e le basi della prosperità dell’economia cinese. Uno stretto alleato di Trump, il finanziere miliardario Bill Ackman, è arrivato a dichiarare in un post su X che “la Cina è isolata” alla luce dell’ultima mossa del presidente, aggiungendo che a suo avviso “ogni azienda americana con una catena di fornitura basata in Cina cerca di spostarla in Paesi che probabilmente concluderanno accordi tariffari favorevoli con gli Stati Uniti". Per Trump l’ambizione è far sì che di fronte al rischio di veder duramente colpite le produzioni in Cina, le imprese operanti sul mercato globale in tutti i principali settori strategici scelgano di spostare altrove i loro impianti, abbattendo così il maxi-deficit commerciale degli Usa verso Pechino e favorendo il ritorno in patria di molte produzioni che hanno lasciato gli Stati Uniti negli scorsi decenni. I vincoli alle mosse di Trump Un obiettivo che, però, si scontra con diversi ostacoli, a partire dalla profonda integrazione regionale di molte catene del valore, soprattutto quelle di carattere tecnologico. Innanzitutto, va tenuto conto del fatto che i Paesi con cui Trump tratta hanno un interscambio importante con la Cina: Pechino, stando agli ultimi dati, ha un commercio bilaterale di 220 miliardi di dollari col Vietnam, di 162 miliardi con la Corea del Sud, di 138 col Giappone. Difficile affermare a priori che questi Paesi sarebbero disposti a sconvolgere in profondità i loro sistemi economico-commerciali per avallare la strategia di Trump. In secondo luogo, la Cina non starà ferma. Pechino si è mossa con forza già dopo i primi dazi. Come ha dichiarato Carlo Altomonte, Vicepresidente e Senior Associate Research Fellow di Ispi, “la capacità di decidere rapidamente attivando strumenti di protezione delle proprie economie è fondamentale" e questo alla Cina non fa difetto. Pechino, nota Altomonte, non si è mossa solo per ritorsione. La Cina, spiega l'analista, "ha risposto in poche ore ai dazi americani annunciando dazi compensativi a sua volta” e contemporaneamente “ha usato il suo fondo sovrano, garantito da un backstop della sua banca centrale, per sostenere i corsi azionari e l’economia". La Cina percepisce di essere in una guerra economica con gli Usa fin dalla prima amministrazione di Trump e ha dichiarato di essere preparata per fronteggiarla. “"In risposta ai dazi statunitensi, siamo pronti e abbiamo strategie. Siamo impegnati in una guerra commerciale con gli Stati Uniti da otto anni, accumulando una ricca esperienza in queste lotte", ha scritto il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito Comunista Cinese, commentando la rivalità con Washington. Il fattore tempo danneggia Washington La presa di posizione cinese chiama in causa il terzo e decisivo fattore: il tempo. Sia Trump che il presidente cinese Xi Jinping hanno accettato l’idea di portare avanti la guerra commerciale totale pensando che si trasformerà, via via, in una partita di logoramento. In quest’ottica Victor Shih, direttore del 21st Century China Center dell'Università della California a San Diego, ha fatto notare che Pechino è pronta a fronteggiare danni importanti dalla guerra commerciale, compresa "un'ondata di fallimenti aziendali con milioni di disoccupati" ma "ha più capacità di sostenere questa situazione rispetto alla leadership americana". La disponibilità di risorse per investimenti, la citata integrazione regionale, la spinta di Pechino a stimolare la produzione nazionale per sostituire con l’industria interna quei prodotti che da tempo non sono più disponibili nel Paese, come i chip più avanzati e le schede grafiche per l’Ia, stanno da tempo rendendo pronta la Repubblica Popolare alla sfida. La scommessa di Xi Jinping è che Trump si trovi costretto ad affrontare costi inaccettabili per la sua strategia e che, come abbiamo spiegato su queste colonne, siano l’inflazione e l’aumento dei costi dei beni di consumo a danneggiare politicamente Washington. Inoltre, la strategia di Trump sconta una palese asimmetria temporale: gli impianti industriali che gli Usa vogliono riportare in patria o veder spostati dalla Cina non nascono dal nulla e necessitano di anni di investimenti prima di essere avviati. I costi della guerra commerciale saranno invece pagati nell’immediato dai consumatori americani. “Molti beni provenienti dalla Cina non potranno essere sostituiti rapidamente, con un conseguente aumento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti, potenzialmente per anni, prima che vengano inaugurate nuove fabbriche”, nota la Cnn aggiungendo che secondo gli analisti di JPMorgan “questo potrebbe comportare extra-costi per gli americani di circa 860 miliardi di dollari, prima delle sostituzioni dei prodotti”. Trump in un vicolo cieco? Trump ha varato la sua offensiva commerciale pensando che nessun Paese avrebbe reagito colpo su colpo. La risposta cinese ha gettato un’ombra sulla sua guerra commerciale e ora gli Usa si trovano ad affrontare una partita difficilissima. Da un lato, dovranno confrontarsi con Pechino sul piano economico-industriale in una rivalità ormai a tutto campo. Dall’altro, mireranno a strappare accordi positivi con i Paesi a cui sono stati sospesi i dazi. L’obiettivo è chiaro: separare gradualmente Pechino dal resto del mondo. Ma ad oggi la strategia presenta più incertezze che prospettive positive per un’amministrazione Usa che vuole sostituire l’ordine commerciale internazionale con una somma di patti bilaterali in cui l’America fa la parte del leone. L’azzardo rischia di costare caro agli Usa e agli americani.

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