C'è una logica dietro ai dazi di Trump?

Il terremoto causato dall’annuncio di Trump il 2 aprile è stato motivato dallo stesso con la tesi che gli altri Paesi si approfittano da anni della bontà degli Stati Uniti. Vendono beni e servizi in grande quantità a famiglie e imprese americane, ma comprano poco. Il fatto che ci sia uno squilibrio coi conti con l’estero a stelle e strisce significa, per definizione , che ci sono delle barriere, esplicite o esplicite, alle esportazioni americane . Da qui la necessità dei dazi per riequilibrare la situazione. A parte il fatto che se un Paese importa più di quanto esporta significa che consuma quello che gli altri producono lavorando , la narrativa di Trump si scontra con l’evidenza delle serie storiche sul commercio estero tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Facciamo un po’ di storia, mettendo insieme il data base di Macrotrends e, per il periodo più recente, quello della St. Louis Fed aggiornato al 2024. I dati mostrano che il problema del deficit esterno degli USA è di lunghissima data. L’ultimo anno in cui l’America ha registrato un surplus è stato il 1975, mezzo secolo fa. Il deficit è cresciuto negli anni della presidenza Reagan fino a raggiungere il 3% del Pil nel 1985 a causa di un forte apprezzamento del dollaro , causato dall’aumento del deficit pubblico americano e dalla politica di alti tassi di interesse della Fed per sconfiggere l’inflazione. Dopo l’accordo del Plaza, il dollaro tornò su livelli più normali, ma anche negli anni ’90, gli Stati Uniti rimasero in deficit, anche se per importi minori . Alla fine di quel decennio però, e quindi prima dell’entrata della Cina nel WTO, con il conseguente abbassamento dei dazi per questo Paese, il deficit era già tornato al 3% del Pil. Da allora ha oscillato tra il 3% e il 5% del Pil. Nel 2024 è stato del 4,15% del Pil. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano un deficit nei loro conti con l’estero non è quindi per niente anomalo: mezzo secolo di deficit non è certo attribuibile a presunte barriere poste dagli altri Paesi, a meno di credere che una sfilza di presidenti americani non si siano accorti di essere stati turlupinati dal resto del mondo. Certo, proteste, anche giustificate, rispetto a certi comportamenti ce ne erano stati . Certo, negli ultimi venticinque anni il deficit si è ampliato rispetto al precedente quarto di secolo, per effetto della globalizzazione, anche se, come detto, a fine anni ’90 il deficit era già molto ampio. Ma il fatto che per cinquant’anni gli USA abbiano avuto un buco nei conti con l’estero, in termini di livello e di sue oscillazioni, non può certo essere imputato solo a dazi, espliciti o nascosti, imposti da tutte le altre nazioni. Capisco che gli Stati Uniti possano voler discutere, per esempio, certi aspetti delle politiche cinesi, ma da qui a dire che tutti i Paesi del mondo li hanno turlupinati per mezzo secolo ce ne vuole. La realtà è che lo squilibrio dei conti con l’estero, per gli Stati Uniti come per gli altri Paesi, va letto in primis come l’effetto di differenze tra la spesa e la capacità produttiva, ovvero come differenza tra risparmi domestici e investimenti. Se le famiglie americane, magari per effetto di eccesso di debito, mantengono uno stile di vita più elevato di quello che si possono permettere, se il deficit pubblico del governo federale resta su livelli insostenibili, se le imprese americane riescono ad attirare capitali investendo in attività produttive, l’eccesso di spesa sul reddito prodotto si scarica sui conti con l’estero. Non ne facciano una colpa di tutto il resto del mondo.

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