Perché l'azienda di Musk manda una lettera-appello al Doge Musk

Iniziate in modo sporadico e tutto sommato pacifico , le proteste anti Musk davanti a stabilimenti e concessionari Tesla negli ultimi giorni stanno assumendo toni più preoccupanti. Tanto che la Casa Bianca ha fatto sapere che saranno classificate come atti di terrorismo, e perseguite come tali. Dagli Stati Uniti all’Australia, passando per diversi Paesi europei, il boicottaggio si è allargato assumendo sfumature più violente, perché ai cartelli che inneggiano a non comprare i veicoli dell’azienda pioniera delle full electric si aggiungono atti di vandalismo: vetrine in frantumi, incendi, lanci di vernice contro l’auto simbolo dell’imprenditore più ricco e discusso del mondo. Che dalla sua avventura politica, come “quasi co-presidente” di fatto degli Usa, sta ricavando ingenti danni economici : secondo Forbes, la bibbia del settore, dall’insediamento del 20 gennaio il suo patrimonio è calato di oltre 100 miliardi di dollari. Cifra che consentirebbe a Musk di classificarsi 13esimo nella graduatoria dei Paperoni globali. Crollo delle vendite Tesla in Cina e in Europa Ad incidere come un bisturi sul bilancio del visionario imprenditore nato in Sud Africa sono soprattutto le vendite della più nota delle sue creature, Tesla. A febbraio sono tracollate su tutti i principali mercati, a partire dalla Cina . Con picchi negativi in Germania, dove l’appoggio al partito di estrema destra AfD ha fatto da miccia alle proteste: -76% rispetto al febbraio di un anno fa. Quando Musk non aveva ancora legato il suo nome a quello di Donald Trump ed era “solo” un imprenditore visionario e ‘foolish’ . Lo sbarco in politica, su posizioni spesso discusse e divisive, non sta giovando al suo business. Ovviamente, il crollo delle vendite di Tesla non è legato solo alle campagne di boicottaggio per i suoi saluti romani o per il ruolo di Doge, mal tollerato tagliatore di teste della Pubblica amministrazione di Washington. Pesa tantissimo la concorrenza low cost, visto che Tesla è stata da subito lo status symbol di modelli costosi ed elitari. E le prospettive per il futuro sono fosche, specie se Washington insisterà sulla strada dei dazi. Le politiche di Trump penalizzano Tesla L’azienda, che ha sede in Texas, ha di recente inviato una lettera alla Casa Bianca in cui mette in guardia dalle ritorsioni degli altri Stati. “Ad esempio – si legge in un passaggio – le passate azioni commerciali degli Stati Uniti hanno provocato reazioni immediate da parte dei Paesi presi di mira: tra cui tariffe aumentate sui veicoli elettrici importati in quei Paesi”. La lettera ammette candidamente che il gruppo è “vulnerabile a potenziali mosse di ritorsione da parte di altri Paesi in seguito all’intensificarsi dello scontro commerciale”. Insomma, è un appello dell’azienda di Elon Musk all’amministrazione guidata da Elon Musk. Un cortocircuito, un paradosso, figlio della commistione pubblico-privato del Doge, visto che il proprietario di Tesla è il primo sostenitore delle politiche commerciali di Trump. Che, da nemico giurato dei veicoli elettrici, in questo vortice di contraddizioni ha provato a inventarsi testimonial, comprando una Model S a favore di telecamera, in un mini-show che ai più ottimisti è parso insufficiente per rilanciare l’immagine del brand, e ai più critici ha ricordato una maldestra televendita dai dubbi effetti. A Wall Street il titolo qualcosina ha recuperato, dopo il tracollo che l’ha visto dimezzare il suo valore: dal record storico del 17 dicembre, a quasi 500 dollari, ai 250 riacciuffati a fatica il 17 marzo: tre mesi esatti che sembrano quattro anni. Un intero mandato presidenziale.

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