Le pensioni italiane: tra sostenibilità e peso del passato

Il tema delle pensioni, in Italia, evoca da sempre una miscela di ansie, speranze e polemiche. Tra chi teme un sistema destinato al collasso e chi ne certifica la sostenibilità, la realtà si colloca, come spesso accade, nel mezzo. Il Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano di Itinerari Previdenziali traccia un quadro sfaccettato: il sistema pensionistico è solido se analizzato in modo “isolato”, ma il suo equilibrio è messo a rischio da fattori esterni, come il peso dell’assistenza sociale e le sfide demografiche. Un sistema previdenziale sotto controllo Contrariamente alla narrazione dominante, il sistema pensionistico italiano, considerato nella sua dimensione previdenziale pura, nel senso delle pensioni derivanti dai contributi versati, non appare fuori controllo. La spesa per invalidità, vecchiaia e superstiti nel 2023 è stata pari al 12,55% del PIL, una percentuale perfettamente in linea con la media europea e, anzi, più bassa se si escludono le spese assistenziali accorpate, impropriamente sostiene da sempre l’Istituito diretto da Alberto Brambilla, al capitolo previdenziale. Un dato che smonta molte delle retoriche apocalittiche che ciclicamente agitano il dibattito pubblico. Il problema secondo l’ex Sottosegretario del Governo Berlusconi, semmai, è altrove: nella voce "assistenza". Nel 2023, le spese per prestazioni non contributive, come le pensioni di invalidità civile e le indennità di accompagnamento, hanno superato i 164 miliardi di euro, crescendo tre volte più velocemente della spesa previdenziale negli ultimi quindici anni. Un peso enorme che grava interamente sulla fiscalità generale e solleva interrogativi sulla sostenibilità complessiva del sistema di welfare. Previdenza e assistenza: due concetti diversi, ma intrecciati Per comprendere il peso del sistema previdenziale italiano, è essenziale distinguere tra previdenza e assistenza, due componenti fondamentali del nostro welfare. La previdenza si basa sui contributi versati dai lavoratori durante la loro carriera: le pensioni previdenziali sono quindi calcolate in base a quanto si è versato, anche se l’assegno percepito è il risultato di un “patto intergenerazionale” dove chi lavora oggi finanzia, con i propri contributi, le pensioni di chi ha già concluso la propria attività lavorativa. Questo al momento non è un problema, anche se potrebbe diventarlo in futuro, come mostreremo dopo. L’assistenza, invece, non si fonda sui contributi versati, ma è finanziata interamente dalla fiscalità generale. Rientrano in questa categoria le pensioni di invalidità civile, le indennità di accompagnamento, gli assegni sociali e altre misure rivolte a sostenere chi si trova in condizioni di fragilità economica o sociale e non abbia, se non in parte, versato contributi. Ma perché questi due ambiti, così diversi, sono contati insieme? La risposta affonda le radici nella storia del nostro sistema di welfare. Per decenni, previdenza e assistenza sono state gestite congiuntamente, soprattutto per una semplificazione amministrativa e per la difficoltà di tracciare confini netti tra le due categorie . Inoltre, tenere uniti questi dati ha consentito di mascherare in parte l’entità della spesa assistenziale, evitando dibattiti pubblici troppo accesi sul peso reale che grava sulla fiscalità generale. Questo accorpamento, però, genera confusione. Da un lato, gonfia artificialmente i dati sulla spesa pensionistica, rendendo il sistema previdenziale apparentemente più oneroso di quanto non sia in realtà. Dall’altro, consente di evitare un dibattito politico sul riordino della spesa assistenziale, un tema delicato che implica scelte impopolari e complesse. Dinamiche demografiche e mercato del lavoro: il nodo gordiano Tornando invece ai possibili e venturi problemi lato previdenziale di cui accennavamo, come evidenziato dall’Istituto, a rendere il quadro più complesso vi è l’impatto delle dinamiche demografiche. L’Italia, con un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa e un’aspettativa di vita sempre più alta, è intrappolata in un modello che rischia di diventare insostenibile. L’invecchiamento della popolazione riduce progressivamente il numero di lavoratori attivi in rapporto ai pensionati, minando uno dei pilastri su cui si regge il sistema: il già citato “patto intergenerazionale”. L’aumento delle entrate contributive, grazie alla ripresa post-pandemica e all’incremento dell’occupazione, è un segnale positivo, ma non sufficiente a compensare il disavanzo strutturale. Questo squilibrio è ulteriormente aggravato dalla persistenza di un’elevata evasione contributiva e dalla mancata integrazione di giovani e donne nel mercato del lavoro, un deficit che impedisce al sistema di beneficiare di tutto il suo potenziale. L'allungamento dell'età lavorativa: tra equilibrio e "sfruttamento" In questo senso uno dei punti centrali del Rapporto è la richiesta di una applicazione rigorosa dei due stabilizzatori automatici previsti dal sistema previdenziale italiano : l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita. Secondo molti esperti, questa misura è indispensabile per mantenere il sistema sostenibile, soprattutto considerando il picco di pensionamenti previsto tra il 2035 e il 2040, quando la maggior parte dei baby boomer sarà uscita dal mercato del lavoro. Eppure, proprio su questo tema si è accesa negli ultimi giorni una polemica che coinvolge sindacati, associazioni di categoria e politica. L’idea di aumentare gradualmente l’età pensionabile in considerazione dell’allungamento della aspettativa di vita e quindi del periodo in cui si percepirà la pensione stessa viene ancora percepito con scetticismo. Le obiezioni principali riguardano l’iniquità della misura: non tutti i lavori sono uguali, e un operaio edile o un infermiere non possono essere messi sullo stesso piano di un impiegato o di un dirigente. Inoltre, il progressivo aumento dell’età pensionabile è visto come una “corsa a ostacoli” che penalizza ulteriormente le donne, già svantaggiate sul piano contributivo a causa delle interruzioni lavorative legate alla maternità e alla cura familiare. Uno sguardo al futuro In questo senso il dibattito sulle pensioni non può ridursi a una guerra di numeri. Serve una visione di lungo termine, capace di affrontare i problemi strutturali del sistema con pragmatismo e coraggio. E soprattutto, è necessario che ogni riforma tenga conto delle differenze tra i lavoratori, evitando misure che penalizzino chi è già più vulnerabile. Un esempio virtuoso potrebbe essere quello di incentivare un invecchiamento attivo, promuovendo politiche che permettano a chi lo desidera di lavorare più a lungo, senza penalizzazioni. Allo stesso tempo, è necessario investire in politiche attive per il lavoro, rafforzando l’occupazione giovanile e femminile. Non esistono soluzioni miracolose, ma è chiaro che il futuro del sistema pensionistico italiano dipenderà dalla capacità di conciliare sostenibilità economica, inclusività sociale e trasparenza. Un equilibrio delicato, ma non impossibile, da raggiungere.

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