Perché l'economia Usa non se la sta passando tanto bene

La recente pubblicazione del rapporto Draghi sulla competitività e produttività dell’economia europea, e quella, pochi mesi fa, del rapporto Letta sul mercato unico, hanno riaperto la discussione sui problemi di lungo termine che l’economia del nostro continente sta attraversando da qualche decennio, soprattutto se confrontata all’economia statunitense. Non è di questo però che voglio parlarvi oggi, ma del fatto che, seppure in maniera meno marcata, anche i cugini d’oltre oceano non se la passano tanto bene se confrontati al loro stesso passato. Ce lo ricorda l’ultimo numero della rivista Finance and Development pubblicata dal Fondo Monetario Internazionale, il cui titolo è significativo: “America Must Rediscover its Dynamism”. Insomma se Atene piange, Sparta non ride. La pubblicazione del Fondo, a partire dal pezzo di apertura di Michael Peters di Yale, parte da un fatto: il tasso di crescita della produttività del lavoro negli Usa è stato negli ultimi anni il più basso dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo a causa del crollo, non tanto di quella parte della crescita della produttività legata al volume di investimenti, ma a quello della cosiddetta “total factor productivity”, la produttività totale dei fattori, un residuo attribuibile al progresso tecnico e ad altri fattori che, a parità di capitale, influenzano quanto si produce in un’ora di lavoro, per esempio l’organizzazione dei metodi produttivi . Peters ritiene che questa caduta nella crescita della produttività sia attribuibile all’attenuarsi di quel processo di “creazione distruttiva” che, a detta di Schumpeter, è alla base del successo del capitalismo moderno. Nuove imprese più dinamiche rimpiazzano le vecchie e la produttività dell’economia migliora, il che sarebbe confermato dal calo nel tasso di entrata di nuove imprese in America: dal 13% nel 1980 all’ 8% nel 2018. A sua volta, questa attenuazione del processo di creazione distruttiva sarebbe spiegata soprattutto da due fattori. Primo l’emergere di colossi della Information and Communication Technology tanto potenti da scoraggiare l’entrata sul mercato di nuove imprese. Fra l’altro, imprese come Google o Apple sono tecnologicamente così avanzate che adottare le loro tecniche produttive diventa semplicemente impossibile per nuovi entranti. Il secondo motivo sarebbe il crollo demografico. Se una popolazione cresce poco il numero dei potenziali nuovi imprenditori e il processo di distruzione creativa tende ad attenuarsi. Questo è coerente con alcune passate stime econometriche che hanno legato il tasso di crescita della produttività alla percentuale di giovani nell’economia. Queste spiegazioni sono interessanti, ma mi chiedo se non esista una spiegazione ancora più semplice. Il progresso tecnologico degli ultimi decenni non è semplicemente confrontabile con quello del passato. Lo ha sostenuto con particolare efficacia l’economista americano Robert Gordon: il progresso tecnologico durante la seconda rivoluzione industriale è stato incomparabilmente superiore a quello della terza rivoluzione industriale caratterizzato dal boom dell’ICT: nel periodo d’oro della sua crescita la produttività totale dei fattori cresceva del 2% in America, contro un misero 0,4% degli ultimi due decenni. Questa minor dinamica del progresso tecnologico potrebbe essere dovuta all’attenuarsi del processo di distruzione creativa cui Peters faceva riferimento, ma potrebbe riflettere anche altri fattori. Una teoria è quella dei “low hanging fruits”: abbiamo colto i frutti tecnologici più facili e progredire ulteriormente è ora più complesso. Un’altra è che all’accumularsi delle conoscenze occorre sempre più tempo agli studenti per arrivare alla frontiera del sapere da cui spingersi più avanti. Altri hanno sottolineato le distorsioni di un sistema accademico in cui conta più il numero dei lavori pubblicati che la loro qualità. Qualunque ne siano le cause, il calo dell’innovazione tecnologica e della crescita della produttività, negli Stati Uniti e ancor più negli altri Paesi avanzati, sta avendo conseguenze enormi, incluso in campo geopolitico. Sì perché il dominio economico-politico che i cosiddetti Paesi avanzati hanno avuto negli ultimi due secoli è stato causato dalla loro capacità di innovare più rapidamente del resto del mondo. Se questa capacità si esaurisce conteranno soprattutto i numeri. E i numeri li ha il resto del mondo. La popolazione dei G7 è di circa 800 milioni di persone. Quella dei BRICS è di 3 miliardi e duecento milioni. E nei BRICS la produttività cresce rapidamente, non perché il loro progresso tecnologico sia superiore, ma perché spostano centinaia di milioni di persone dalle campagne alle città, aumentandone la capacità produttiva. Tempi duri sembrano arrivare per l’Occidente.