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Che fine ha fatto il Bitcoin?

Economia

Mariangela Pira

Restano le perplessità sulle criptovalute. Il problema è che non ci si fida perché  troppo spesso soggette a manipolazioni e frodi. Come assicurare forme di controllo e vigilanza a strutture che per loro natura ai controlli vogliono sfuggire?

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L'altro giorno ho letto questa notizia: una dimora storica di Roma, il Palazzetto, parte del Palazzo Albertoni Spinola, sarà battuto all'asta il 28 giugno a Los Angeles. Mi ha incuriosita perché la procedura prevede che parte del pagamento possa avvenire con bitcoin. Mi sono quindi chiesta: ma che fine ha fatto la criptovaluta per cui tutti impazzivano lo scorso anno? Tutti ne parlavano, tutti ne scrivevano, dagli investitori ai media alla gente comune.

A dicembre scorso il prezzo del Bitcoin saliva verso la vetta dei 20.000 dollari (17.200 euro). Oggi invece ne vale 6.700 (5.700 euro) e c'è chi inizia a spaventarsi, anche perchè parliamo di valori più che dimezzati. Esempio pratico: se a fine novembre scorso aveste comprato 100 euro di Bitcoin ve ne trovereste in tasca circa 33! Alle altre non è andata meglio. Forti perdite anche per Ethereum, la seconda criptovaluta e Ripple. Vale la pena ricordare che guardando ai suoi inizi il Bitcoin è ancora in netto guadagno. 

Non sono in pochi finora ad avere espresso più di un dubbio nei confronti delle criptovalute. Dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi all'ex Ministro dell'economia Pier Carlo Padoan, che ha detto che "possono fare male" e che "un conto è la tecnologia e un conto è l'uso che se ne fa".  

E di certo questo 2018 non è stato benevolo. L'ultimo episodio solo due giorni fa in Corea del Sud. Gli hackers sono riusciti a rubare più di 30 milioni di dollari dalla principale piattaforma di scambio di Bitcoin, contribuendo alla caduta libera dei prezzi. "Cosa c'entra quanto accaduto con il valore del Bitcoin - si è giustificato il fondatore di Litecoin Charlie Lee - se i ladri assaltano una banca per rubare l'oro, non è che questo perda valore". Ma il problema resta. In fondo se non ci si fida delle criptovalute è perché sono spesso soggette a manipolazioni e frodi. Forse è insito nella loro natura decentrata: le criptovalute sono generate, scambiate e contabilizzate su una rete informatica globale difficilmente controllabile. 

Tra le accuse mosse ai 'miners' anche quella ambientale. Per chi non li avesse mai sentiti nominare, parlo dei protagonisi di questa rivoluzione che si chiamano appunto minatori, da 'miners' in inglese. Non usano il piccone ma processori in grado di risolvere complicati algoritmi e generare la moneta virtuale. La corsa ad essere i primi ad elaborare le transazioni mangia la stessa quantità di elettricità della Svizzera! Un disastro ambientale praticamente. Provate anche a voi a scarirare sul cellulare l'app di Coinbase, il servizio che attualmente la maggior parte delle persone utilizza per comprare le monete virtuali. Noterete che nello smartphone è quella che consuma più energia. 

In ogni caso, in una società che si avvia ad essere digitale (si pensi alla Svezia dove ormai un esiguo 15% della popolazione usa solo la moneta, vedi qui: http://video.sky.it/news/economia/svezia-digitale-verso-addio-al-contante/v419296.vid), con le criptovalute prima o poi si dovrà fare i conti. Tutti per esempio condividono il fatto che l'aspetto davvero geniale e importante del Bitcoin sia la tecnologia che sta alla base, la Blockchain, che oramai viene utilizzata per vari servizi internet, non solo per le criptovalute. A testimoniare l'apprezzamento nei confronti di questo meccanismo, sono in molti a ritenere che possa riscrivere dalle fondamenta il modo in cui gestire le transazioni sul web.  

Certo, resta il dubbio di come assicurare forme di controllo e vigilanza a strutture che per loro natura a questo tipo di controllo vogliono sfuggire?