Smartphone vietati: e se la formazione partisse dagli adulti?

Prego, scomodati ché parliamo della rumorosa petizione lanciata pochi giorni fa nel nostro Paese per raccogliere firme che ottengano il divieto di possedere un proprio cellulare fino a 14 anni e un profilo social al di sotto dei 16. Nel momento in cui scrivo ha reclutato più di tredicimila sostenitori, anche grazie all’appoggio di molti dei nomi più rilevanti del cinema italiano. L’urgenza dell’appello nasce dalle evidenze fornite dalle neuroscienze: sul cervello ancora immaturo dei più piccoli l’uso degli smartphone produce danni che riverberano sulle capacità di relazione, sul gradiente di attenzione, sull’apprendimento e la comprensione del linguaggio. L’esposizione prolungata ai dispositivi impatta sulle stesse zone cerebrali interessate dallo sviluppo delle dipendenze, per non parlare del fatto che i confronti tra i bambini che fanno un uso assiduo di smartphone e i coetanei cui ne viene limitato l’accesso, dimostrano che i primi hanno risultati significativamente peggiori sia nelle competenze cognitive che in quelle emotive, manifestando frequentemente disturbi del comportamento. L’uso precoce dei social, poi, accelera l’adultizzazione dei più piccoli, che oltre ad imbattersi in materiale potenzialmente dannoso per la loro sensibilità, possono assumere comportamenti prematuri, perlopiù ipersessualizzati. Cosa aspettiamo allora a vietare i cellulari prima delle scuole superiori e ad alzare la soglia anagrafica dell’accesso ai social media? Come è stato possibile rimandarlo finora? Intanto, perché la prima domanda che mi porrei riguarderebbe la praticabilità dell’iniziativa e il controllo della sua riuscita, tant’è che nessun Paese al mondo ha ancora applicato restrizioni in tal senso, limitandosi realisticamente a prescrivere divieti o condizioni straordinarie all’uso dei dispositivi, solo nelle scuole. Poi, perché gli studi internazionali a ben vedere giungono a conclusioni che meritano una riflessione scrupolosa: le immagini del cervello stressato dal tempo passato davanti agli schermi sono lì da vedere e in effetti dimostrano quanto apocalitticamente dicevo sopra. Però. Anche le ricerche longitudinali più complete ammettono l’oggettiva impossibilità empirica a isolare l’uso degli smartphone come fattore determinante il legame causale diretto tra i cellulari di ultima generazione e i danni provocati alla salute psicologica degli utenti più giovani. Insomma: quello che precisamente i ricercatori di tutto il mondo da anni ci stanno dicendo in verità è Occhio, ché noi i bambini che usano gli smartphone li abbiamo studiati, e mica stanno benissimo. Però non possiamo affermare che sia esclusivamente colpa del digitale, perché purtroppo non abbiamo potuto usare bambini coltivati nelle campane di vetro e allevati soltanto dagli schermi. Per gli adolescenti, poi, peggio ci sentiamo: sono ancora più grandi e già incasinati per loro natura, il che ci impedisce ulteriormente di isolare le variabili “smartphone” e “social” rispetto a tutti gli altri fattori psicosociali che impattano sulle loro esistenze. Tutto ciò posto, suggeriamo ad ogni buon conto di stare all’erta: l’ideale riteniamo sarebbe non derogare dal nostro ruolo di adulti, con il rischio che i più giovani si rifugino in una vita virtuale che potrebbe finire per piacere loro un po’ di più di quella reale, se in quest’ultima sono lasciati soli e intrattenuti da tate virali che fanno le gare a chi mangia più hamburger fermandosi un secondo prima di morire di dispepsia. Cordiali saluti. La faccenda, in questi termini, si fa finalmente interessante: un bellissimo studio canadese ha infatti dimostrato che bambini e adolescenti che incappano nelle peggiori esperienze digitali non sono in realtà quelli che ne abusano. Si tratta piuttosto di soggetti con pregressi tratti di disagio ignorati da chi sta loro intorno e che su Internet trovano un ulteriore modo per farsi del male segnalando una sofferenza psichica di cui sono già vittime. Secondo questi dati, dispositivi e social si confermano sì un fattore di rischio, ma la loro incidenza ricade sui soggetti più fragili, ovvero resi vulnerabili dalla loro esperienza nell’ambiente reale, non virtuale. Se togliessimo loro il telefono, presumibilmente si metterebbero comunque nei guai, ma alla vecchia maniera. … a meno che. A meno che accettiamo di scomodarci le sinapsi e fare altri tipi di pensieri, porci domande che interrogano la complessità senza la fretta e l’allarmismo di ottenere risposte che, temo, avrebbero l’ingenuità dell’adulto fragile che per aggirare la sua inadeguatezza stringe anziché liberare, vieta in luogo di educare, punta il dito quando forse dovrebbe rivolgerselo. Per esempio: ha senso cercare soluzioni onnicomprensive che mettano nella stessa squadra un duenne e un tredicenne? Se infatti sotto i ventiquattro, trenta mesi un bambino non dovrebbe essere mai esposto a nessuno schermo, oggi vietare ad una ragazzina di terza media di chattare con i suoi amici e mandare la foto dell’outfit per la festa a casa di Odoacre di sabato prossimo significherebbe attentare nell’ennesimo modo all’adolescenza dei nostri figli, offendere la loro intelligenza, ostacolare la possibilità di vivere nel proprio tempo quando, di fatto, rappresenterebbe solo un bisogno di controllo come soluzione alla nostra insufficienza pedagogica. La strada allora potrebbe essere un’altra. Certo, è più impegnativa che smarcare il problema con il proibizionismo, e ingaggia noi anziché punire i ragazzi. Suona più o meno così: formiamoci in modo da introdurre con credibilità l’educazione digitale fin dalla scuola primaria da parte di insegnanti solidi e preparati che la ritengano importante al pari del far di conto; assumiamoci la responsabilità di essere dei genitori che offrono un ventaglio di esperienze e stimoli che fin dalla prima infanzia crescano figli che stanno abbastanza bene da imparare che vivere è bello, a volte così bello da volerlo condividere su Instagram; educhiamoci come genitori capaci di porre dei limiti, dire dei no, fare controcultura sapendo che se anche Adalgisa fosse l’unica della sua classe a non avere ricevuto l’ultimo modello di smartphone per i suoi sette anni, abbiamo degli ottimi motivi per non sentirci la peggiore famiglia del mondo che invece lei crede di avere; comportiamoci da adulti in grado di essere i primi testimoni di un uso proficuo della tecnologia che abbiamo a disposizione; creiamo spazi di aggregazione e diamo vita ad iniziative di pregio dedicate alle esigenze dei più giovani; facciamoci trovare dovessero avere bisogno di sostegno, implementando i servizi sul territorio per la presa in carico di chi è in difficoltà; manteniamoci teste pensanti e impariamo che se si sviluppa una dipendenza non è perché si ha accesso alla cocaina, ai gratta e vinci o a Tik Tok, ma perché si cerca un anestetico per arrivare alla fine della giornata. Insomma, perché non facciamo in modo di proteggere i bambini senza far pagare all’adolescenza il saldo della nostra impreparazione a farlo?