Abbandono forzato: perché molti studenti con Dsa lasciano la scuola prematuramente?

“La delinquenza non è frutto della povertà, ma dell’ignoranza”. Silvia Lanzafame ricorda a memoria le parole che le rivolse Luca, nome di fantasia, per invocare il suo aiuto dal carcere di Rossano . Per lei, presidente dell’Associazione italiana dislessia , era la prima richiesta di diagnosi di Dsa fra le mura di una casa di reclusione. Per di più, espressa da un ergastolano. “Ripeteva molte volte che, se in adolescenza gli fossero stati dati strumenti diversi, avrebbe potuto avere una penna in mano, invece di una pistola”. Dal 2018, anno della diagnosi, Luca si è poi diplomato e laureato. “Prendere consapevolezza del disturbo lo ha aiutato sia tecnicamente sia, soprattutto, psicologicamente”, spiega Lanzafame. In altre parole, dietro al suo complicato successo formativo, starebbero una diagnosi e un’equipe di esperti pronta a supportarlo con i Dsa. Condizioni garantite anche agli alunni fuori dal carcere, ma non sempre sufficienti a contenere la dispersione scolastica. “I tassi sono altissimi fra le persone con Disturbi specifici dell’apprendimento. E non è un problema di formazione, che oggi è tanta, ma di sensibilità dei docenti”, chiosa la presidente Aid. Dislessici, disortografici, disgrafici e discalculici – questi sono i quattro disturbi codificati – a scuola hanno vita meno facile degli altri studenti. Ma è ancora un disagio complicato da monitorare, in assenza di numeri ufficiali. Gli unici forniti dal ministero dell’Istruzione riguardano le diagnosi, in costante crescita dallo 0,9% del 2010 al 5,4% del 2021 . Naturalmente, l’impennata non tradisce un aggravamento del fenomeno ma, semmai, una maggiore attenzione nell’intercettarlo. Anche per questo, preoccupano le percentuali più basse fatte registrare dal Mezzogiorno – 2,8% contro il 6,8% del Nord – che probabilmente si affiancano a un minor numero di certificazioni. “Io stessa – confessa Lanzafame – quando ho ricevuto la mia diagnosi all’età di 19 anni, quindi ormai molto grande, ho smesso di sentirmi una stupida. È stata la mia salvezza”. Molti problemi nascono alle superiori Molti percorsi si interrompono dopo il diploma. Se prima si parla generalmente di dispersione scolastica – quindi bocciature, ripetenze o ritardi d’altro genere – l’abbandono vero e proprio per gli studenti con Dsa è più frequente nelle aule universitarie. Dove spesso la diagnosi non viene neppure presentata ai docenti. “Nei primi anni di Università, non ho mai voluto impugnare la mia certificazione davanti al professore. Sono sempre rimasto chiuso nel mio”, confessa Giulio Carboni, ora 33enne, che negli anni successivi al diploma ha rinunciato alla laurea perché “l’università, in quel momento, non gli faceva vedere un futuro”. La sua è una dislessia di quelle che “devi leggere sempre due volte un paragrafo per capirci qualcosa” e che, in tutto il percorso alle superiori, lo ha costretto a rimbalzare fra lezioni mattutine e ripetizioni pomeridiane. “I miei genitori hanno speso molti soldi per me – racconta – Erano anni in cui era più difficile trovare insegnanti nel pomeriggio che sapessero cosa fosse un disturbo dell’apprendimento”. Oggi, a sentire Aid, non è più così. “Per diventare docente, al momento, devi avere una preparazione di base accademica a cui sommare un percorso di formazione ad hoc. Il problema, semmai, è che molti insegnanti non lavorano pensando di formare una persona, ma solo conoscenze. Su questo fronte, la scuola non è ancora pronta”. A questo, si aggiunge il peso della burocrazia. “Moltissimi docenti – racconta Lanzafame – non si muovono neppure senza una diagnosi in mano. Ma se vedi un bambino che ha difficoltà a scrivere in corsivo, perché non gli vieni incontro facendolo scrivere in stampatello? Non capisco perché ci nascondiamo ancora dietro alle leggi”. I Dsa che "spariscono" all'Università Nonostante i molti sforzi alle superiori, di fronte ai primi esami universitari, Carboni si è sentito mancare il terreno sotto ai piedi. “Non avevo più lo schema delle lezioni né la capacità di essere autonomo. Avevo la possibilità di programmare la preparazione ma i ritmi erano molto incalzanti”. Così, dopo quattro anni di “sforzi e stanchezza”, lo studente ha rinunciato agli studi e ha iniziato a lavorare. Per moltissimi, come lui, i Dsa diventano ostacoli insormontabili negli anni universitari. “Io ho avuto l’affiancamento di tutor – racconta Lanzafame – e agli esami, sia scritti sia orali, potevo portare mappe. Tutto questo mi ha salvato e mi ha permesso di laurearmi. Per anni pensavo di essere una nullità”. E molti anni, trascorsi nel mondo del lavoro, sono serviti anche a Giulio Carboni per decidere di riaprire il proprio libretto. Stavolta, senza rinunciare ai necessari strumenti compensativi. “Ho presentato la diagnosi e ottenuto tutto quello che mi poteva servire”. Tradotto: qualche minuto in più, calcolatrice e mappe concettuali. Non senza stupore, per i professori non è quasi mai stato un problema: “Usavano le griglie apposite per i Dsa, ma sono sempre stato valutato come gli altri”, racconta Carboni. Secondo Aid, non sarebbe un’eccezione perché, negli ultimi anni, sono stati fatti molti passi in avanti: “In fondo – commenta Lanzafame – non è un problema di preparazione ma, specialmente all’Università, di empatia”.

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