IL LIBRO DELLA SETTIMANA Era uno dei pochissimi contadini che in Friuli nel Cinquecento sapevano leggere e far di conto: si trovò al centro di due processi per aver diffuso idee sovversive, finendo sulla forca
All’anagrafe faceva il nome di Domenico Scardella, ma a Montereale, il piccolo paese friulano dove nel 1532 era nato, tutti lo chiamavano Menocchio. Era sposato, aveva sette figli e tirava a campare facendo anche il mestiere “di monaro, marangon, segar, far muro e altre cose”. Gran parte dei pochi soldi guadagnati arrivava però grazie all’attività di mugnaio, e non è un caso infatti che lui, Menocchio, portasse l’abito tradizionale di quel lavoro: un mantello e un berretto di lana bianca. Della sua storia non sapremmo nulla se non fosse che alla fine del secolo in cui nacque venne messo a morte dall’Inquisizione.
Il contadino che legge e fa di conto
La storia di Menocchio è al centro di “Il formaggio e i vermi”, una breve monografia firmata da Carlo Ginzuburg e ora riproposta da Adelphi (pp. 232, euro 24) a più di quarant’anni dalla sua prima edizione. Ed è una storia incredibile. Non tanto perché è difficile trovare in pieno Cinquecento un contadino che sappia “leggere, scrivere et abaco” e che per questo sia scelto come “camararo” (cioè amministratore) della pieve di Montereale. Ma soprattutto perché è singolare trovarne uno denunciato per due volte e poi giustiziato per le sue idee sovversive.
“Ognuno fa il suo mestier, et io fazzo il mi mestier di bestemmiar”
Ma cosa spinse il Sant’Uffizio a processare un mugnaio semianalfabeta e a mandarlo alla forca? La lista è lunga e non è così banale. Innanzitutto, Menocchio non riconosceva alcuna autorità specifica alle gerarchie ecclesiastiche: “Che papi, prelati, che preti! le qual parole diceva in disprezzo, ché non credeva a loro”; il papa, in particolare, era “homo come nui”, tranne per il fatto che aveva il potere e quindi più “dignità”. Ne conseguiva, a suo dire, che non esisteva alcuna differenza tra chierici e laici: il sacramento dell’ordine era una “mercantia”. Menocchio bestemmiava “smisuratamente” e sosteneva che farlo non era affatto peccato: “Ognuno fa il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di bestemmiar”. Si scagliava poi contro l’uso del latino in tribunale perché “il parlar latin sia un tradimento de’ poveri, perché nelle litte li pover’homini non sanno quello si dice et sono strussiati, et se vogliono dir quatro parole bisogna haver un avocato”. Tutto qui? Mica tanto. Secondo il mugnaio questo non era che un esempio di un generale sfruttamento di cui la Chiesa era complice e partecipe: “A questa colossale costruzione basata sullo sfruttamento dei poveri”, scrive Ginzburg, Menocchio contrapponeva una religione ben diversa, “in cui tutti sono uguali, perché lo spirito di Dio è di tutti”.
Dal formaggio ai vermi: ecco come è nato il mondo
Siamo in pieno Cinquecento, impossibile non sentire l’eco dei colpi inferti al principio di autorità nei confronti della Chiesa. E, osserva Ginzburg, non solo di quella: nelle pagine più interessanti del libro lo storico tenta di ricostruire la visione per così dire filosofica di Menocchio. Un’impresa non facile, tanto più che la vita del mugnaio ci è perlopiù arrivata grazie alle carte dei suoi due processi. Ed è da quelle carte che arrivano anche i dettagli più incredibili di questa storia. Come quando Menocchio racconta la sua teoria della creazione: all'inizio, i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) erano tutti fusi insieme, prima di condensarsi in una massa come il formaggio nel latte; è dentro quella massa, secondo il mugnaio, che sono nati "per volontà della Santissima Maestà" gli angeli e Dio, proprio come - e qui veniamo al titolo - si creano i vermi nel formaggio.
La denuncia e la prima condanna
Ginzburg si mette sulle tracce degli indizi di questa visione: compulsa la Bibbia, i libri di riferimento della cultura più tradizionali, azzarda svariate ipotesi riguardo agli influssi della cultura popolare più ancestrale, prima di ritornare alla vicenda processuale. I guai di Menocchio iniziano con la denuncia di un anonimo delatore, che poi tanto anonimo non è: si tratta quasi certamente del don di Montereale, con cui il Nostro ha avuto dei notevoli contrasti. I problemi seri arrivano però con i primi interrogatori. Nonostante il suo amico vicario gli intimi di parlare poco, Menocchio si dimostra subito molto loquace. Vuole dire tutto ciò che pensa, e la sua situazione finisce così con l’ingarbugliarsi sempre più fino alla sentenza, incredibilmente lunga rispetto alla quelle ordinarie: condanna ad abiurare pubblicamente ogni eresia sostenuta, a compiere varie penitenze salutari, a portare per sempre un “habitello” crociato in segno di penitenza, a trascorrere in carcere, a spese dei figli, tutto il resto della propria vita. Ma le carte del processo ci raccontano anche altro.
L'esecuzione per ordine del Papa
Ce ne sarebbe abbastanza per rendere questa storia singolare, ma la parte più incredibile deve ancora venire. A soli due anni dalla sentenza, e grazie a una lunga sfilza di pianti, suppliche, digiuni e prostrazioni, Menocchio non solo riesce a tirarsi fuori dalla prigione ma nel 1590 riesce persino a farsi nominare nuovamente “camararo”, stavolta della chiesa di Santa Maria di Montereale. Sembra la storia a lieto fine di un riscatto sociale, e in effetti all’inizio il nostro mugnaio sta alla larga dai guai: sono troppo vivi i ricordi della prigione “asprissima, terrena, oscura et humida”. Ma è solo un semplice rinvio. Passa poco tempo ed eccolo di nuovo in pubblico a dire che Dio è padre e padrone e che “può fare et disfare; Cristo uomo; i Vangeli opera di preti e frati oziosi; l’equivalenza delle religioni”. Nuovo processo, e stavolta nessuna possibilità di clemenza. L’esecuzione è sollecitata “per ordine della Santità di nostro Signore”, e cioè il papa in persona, Clemente VIII. La storia di Menocchio finisce così. Per secoli resta sepolta nell’oblio, fino a quando non viene ripescata tra le carte processuali, restituendo uno spaccato inquietante certo, ma anche affascinante e straordinario.