Di cosa parliamo quando parliamo di “maranza”?

Di cosa parliamo quando parliamo di “maranza”? Del nome da dare a una nostra paura. Una parola ombrello che non protegge ma stigmatizza, come molti termini simili. Una parola ombrello che pare più utile agli adulti rispetto agli stessi ragazzi. Anzi, “i ragazzi e le ragazze dei quartieri popolari hanno preso quelle stesse rappresentazioni stigmatizzanti che venivano loro appiccicate addosso e le hanno ribaltate, trasformandole”, ricorda Paolo Grassi, antropologo urbano, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ne “La periferia vi guarda con odio” di Gabriel Seroussi. Che cos’è un maranza Ma prima di porre l’attenzione sul cosa, il maranza, appunto, occorre anche andare a un passo precedente. Chi ne parla. Jovanotti, nel 1989 nella sua epoca rapper che scambiava opinioni sull’essere maranza insieme a Celentano in prima serata su Rai Uno con Pippo Baudo a fare da arbitro. Oppure il giornalista Vincenzo Marino che nel 2022 sottolinea il rientro improvviso del termine nel dibattito pubblico e nell’interesse delle persone, con le ricerche della parola che sui motori di ricerca hanno un picco di interesse, sulla spinta delle visualizzazioni social tra Instagram e TikTok. E si arriva a Houria Bouteldja e al suo “Maranza di tutto il mondo unitevi”, un saggio che lega i “barbari” stranieri ai “bifolchi” locali. Un patto tra esclusi che incendia le periferie delle metropoli europee. Al di là di tutto, però, è sicuramente uno slogan che rischia di spiegare poco la realtà. Bisognerebbe invece considerare più nello specifico almeno una triade di dimensioni interpretative, tra colore, classe e territorio che può aiutare a leggere traiettorie biografiche variegate, dai giovani con background migratorio radicati nel loro quartiere, agli artisti della scena rap transculturale europea narrati dai media. E questo si accentua ulteriormente nella spaccatura tra l’uso dell’etichetta securitaria e la sua contronarrazione. La polarizzazione fa perdere pezzi Ma in questa spaccatura tra racconti che cosa ci perdiamo? “Da una parte, in questo momento storico, la contronarrazione è importante perché forse per certi aspetti rischia di idealizzare, ma pone con forza la questione al di là della paura e dello stereotipo - spiega Paolo Grassi a Sky tg24 -. Detto questo, cosa ci perdiamo? Ci perdiamo forse le biografie di ragazzi con un background migratorio che però non si riconoscono in quei modelli. Durante le mie ricerche, spostandomi più sulle traiettorie dei ragazzi e delle ragazze che vivono nel quartiere milanese di San Siro, si trovano cose molto variegate che sfidano queste rappresentazioni così essenzializzanti. Ci sono ragazzi e ragazze che tendenzialmente hanno aspirazioni abbastanza comuni: cercare un lavoro, l'indipendenza economica, viaggiare e affermarsi a livello sociale. Poi, queste aspirazioni si scontrano contro gli svantaggi dai quali partono: la cittadinanza, la povertà e tutto quello che ne consegue: il non riconoscimento sociale che il nostro Paese dimostra nei confronti di questi ragazzi”. Ma queste sfumature si annullano nel racconto che ha bisogno di maranza ed è ispirato dal panico morale. Uno sguardo consolatorio È che alla fine vogliamo tornare alle cose note. Questi termini ombrello, spiega Grassi, aiutano a circoscrivere delle dinamiche e permetterci di utilizzare delle lenti interpretative che in qualche modo sono consuete. Ci consoliamo con quanto già sappiamo. Succede qualcosa di nuovo che non so leggere e quindi trovo il concetto o la categoria che in qualche modo mi permette di circoscriverlo, anche se in realtà non lo sto capendo. “Nel 2021 due rapper hanno organizzato la registrazione di un videoclip in quartiere - ha spiegato Grassi. Arrivano circa 300 ragazzi. Qualcuno chiama la polizia, quindi c'è un piccolo scontro tra forze dell'ordine e ragazzi e questa cosa fa esplodere un'ondata di ansia sociale fortissima a livello locale, ma poi anche a livello nazionale. Subito dopo, i primi post su Facebook che si sono letti hanno puntato il dito contro i centri sociali. Perché a San Siro alcuni centri sociali hanno portato avanti delle lotte legate al diritto all'abitare in maniera molto forte. Quindi quell’episodio è stato letto da alcune persone attraverso riferimenti noti, ma in realtà i centri sociali non c'entravano nulla”. Non solo nei quartieri E bastassero i confini dei quartieri, territoriali, per provare a dare un perimetro al fenomeno. Invece, si amplifica tutto attraverso le piattaforme social. Molto del sentirsi maranza è farli sentire maranza. E in tutto questo la potenza e la velocità di diffondere certi immaginari arriva dalle piattaforme. Ci sono storie di gruppi che si trasformano attraverso un’evoluzione testimoniata in scala uno a uno dai video. “C’è sicuramente un tema di divisione tra locale e globale che si incrocia con l’uso dei social media. Tanto che il fenomeno sta assumendo dei connotati transnazionali e ce lo testimoniano le tracce in rete”, ha concluso Grassi.

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Alessandro Cappai