Family influencer, un terzo dei minori sfruttato per la pubblicità

È possibile parlare di sfruttamento minorile quando si tratta di contenuti promozionali su Instagram diffusi da genitori e famiglie di “influencer”? Da questa domanda è partita l’indagine a cura di Terre des Hommes, con il supporto dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e di ALMED - Università Cattolica del Sacro Cuore, per analizzare i contenuti di un gruppo di 20 family influencer e capire come i figli e le figlie compaiono nei profili social attivi, quanto spesso sono coinvolti in attività promozionali e se questo possa esporli a rischi per la loro salute mentale. Intanto, in due settimane sono stati pubblicati 1334 contenuti tra Instagram e Tiktok: sono account di famiglia, oppure profili di mamme o papà o ancora dei minori stessi, che sono in alcuni casi i veri e propri “influencer” di casa, ma con i profili gestiti dai genitori, che diventano i loro datori di lavoro. I figli appaiono in quasi un contenuto organico su due, mentre per le promozioni siamo a uno su quattro. Parliamo di consenso… o no? La questione centrale è l'impossibilità strutturale del consenso, secondo Terre des Hommes. Un bambino di pochi anni non può comprendere cosa significhi avere la propria immagine esposta a migliaia di persone, né può valutare le conseguenze a lungo termine di questa esposizione. I genitori decidono per loro, spesso motivati da ritorni economici evidenti: secondo la ricerca, la presenza di un bambino nei contenuti pubblicitari più che raddoppia l'engagement rate , traducendosi in maggiori guadagni. In circa un terzo dei casi , i minori diventano addirittura parte attiva della promozione, inconsapevoli di stare lavorando. “Il valore di una gravidanza, nell’economia online, era un concetto estremamente variabile. La notizia della mia poteva anche valere un centesimo, ma la gravidanza di un’influencer era in grado di far scucire ai vari brand decine di migliaia di dollari”, scrive Amanda Hess in “Un’altra vita. Fare un figlio nell’era digitale” . Hess racconta la prospettiva di una donna che rimane incinta e viene “inseguita” dai dati e dagli algoritmi delle piattaforme social che le fanno incontrare solo contenuti dedicati al suo nuovo “status”, la maggior parte dei quali pubblicati da altre donne come lei, pagate dalle aziende che vogliono vendere prodotti dedicati a neonati e neomamme. L’esposizione dei minori comincia quindi fin dal concepimento, con la pubblicazione di ecografie e analisi mediche, e continua con l’arrivo dei bebé: quasi l'80% dei minori protagonisti nei contenuti analizzati da Terre des Hommes ha tra 0 e 5 anni . Le conseguenze di questa sovraesposizione si manifestano su più livelli. Il primo, secondo la ricerca, è quello della sicurezza fisica: attraverso i contenuti postati è facilissimo risalire alla casa dei bambini, alle loro abitudini quotidiane, agli orari e ai luoghi che frequentano. Informazioni che, nelle mani sbagliate, diventano uno strumento perfetto per l'adescamento ma anche vittime di pedopornografia online. La vulnerabilità che diventa content Nel 21% dei contenuti analizzati e pubblicati dal campione vengono mostrati momenti intimi come il bagnetto, il cambio del pannolino o la nanna. Il 18% delle riprese avviene in spazi privati come camerette o bagni. Solo nel 7% dei casi si adottano forme di tutela , percentuale che crolla sotto il 2% quando si tratta di contenuti pubblicitari. Secondo Federica Giannotta, Responsabile Advocacy e programmi Italia Terre des Hommes, “per un bambino, soprattutto nei primi anni di vita, la perdita di spazi protetti e la messa in scena di momenti intimi possono minare il senso di protezione e la capacità di distinguere la realtà dalla finzione”. Nel 2% dei contenuti analizzati vengono ripresi momenti di rabbia, tristezza, difficoltà o malattia dei bambini. Momenti critici, che dovrebbero rimanere nel privato di una famiglia, diventano contenuto da condividere, con effetti potenzialmente devastanti sull'equilibrio emotivo del minore. La ricerca evidenzia inoltre come nel 6% dei casi i bambini vengano coinvolti in trend, challenge e meme: pratiche che li espongono al giudizio pubblico e alla viralità incontrollata, senza che possano comprenderne la portata. Ma perché i bambini vengono esposti? Non perché i prodotti raccontati li riguardino, o almeno non sempre. La ricerca ha evidenziato come i prodotti per l’infanzia sponsorizzati rappresentano solo il 12% di tutti i contenuti pubblicitari. Si tratta prevalentemente di film per bambini e bambine, strutture ricettive pensate per famiglie con figli, snack, abbigliamento, giocattoli e libri, eppure i minori sono maggiormente presenti nei prodotti che non riguardano strettamente l’infanzia, ma tutta la famiglia o anche solo la fascia degli adulti, come per esempio gli elettrodomestici. Un mercato di dati e identità C'è poi una dimensione meno visibile ma altrettanto grave: lo scambio dei dati personali dei minori. Come sottolinea un disegno di legge in discussione al Senato proposto nel maggio 2024 sulle “Disposizioni per la tutela dei minori nella dimensione digitale”, i bambini "non sono in grado di apprezzare il valore economico dei propri dati personali", eppure questi vengono ceduti in cambio di servizi e visibilità. L'identità digitale di questi bambini viene costruita e monetizzata prima ancora che abbiano coscienza di esistere online. Per questo motivo, Terre des Hommes chiede “una regolamentazione capace di tutelare il diritto dei più piccoli a crescere in un ambiente sicuro, autentico e libero da pressioni esterne”, secondo le parole Giannotta. Regolamentazione ma anche formazione, per Elisabetta Locatelli, ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: “I social media hanno creato opportunità lavorative prima inedite che consentono di trovare nuovi equilibri fra lavoro e vita privata, come è avvenuto nel caso dei family influencer e – più in generale – di influencer e creator. Questo però rischia di comportare, come emerso nei dati di ricerca, una sovraesposizione dell’infanzia e dell’adolescenza, di non definire in modo ottimale i confini fra vita personale e professionale o di non tutelare adeguatamente i diritti. È per questo necessario regolamentare e fare formazione così come continuare ad analizzare questi fenomeni”.

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