Perché bisogna ricordare Giancarlo Siani, il giornalista-giornalista

Prima di allora, la camorra non aveva mai ucciso un giornalista. Ma il 23 Settembre del 1985, questo accade: Giancarlo Siani viene ucciso sotto casa sua, a Napoli, mentre è a bordo della sua Mehari verde, che poi diventa il simbolo del suo coraggio. È un ragazzo di 26 anni simpatico, mite e pieno di speranze, che da poco ha ottenuto il suo primo contratto di sostituzione al giornale Il Mattino, dopo molto tempo passato da precario, rischiando in prima persona nel descrivere i fatti di camorra che avvengono a Torre Annunziata, Comune alle pendici del Vesuvio che negli anni Ottanta è il regno del clan Gionta. Giancarlo è un “giornalista-giornalista”, come recita quella scena iconica del film “Fortapasc”, dedicato alla sua vita. A condannarlo a morte è la camorra, per i suoi articoli. Giancarlo sa troppo e per questo deve morire. I suoi articoli sono ingombranti. Troppo. Denunciano l’intreccio tra camorra, politica e imprenditoria. Il clan Gionta e i suoi affari Dal 1979 all’84, a Napoli e provincia si registrano 769 morti in agguati di camorra. Sono due gli eserciti che si affrontano: la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e il clan Nuvoletta, divenuto sempre più potente grazie all’affiliazione alla mafia siciliana. Per mettere all’angolo Cutolo, i Nuvoletta trovano un alleato prezioso che è appunto Valentino Gionta. Come ricostruirà poi Ferdinando Cataldo, pentito del clan che avrebbe dovuto partecipare all’agguato contro Siani, il progetto di Gionta era quello di riciclare i proventi della criminalità organizzata in attività imprenditoriali, come l’enorme mercato ittico, il più grande del Sud Italia, e attività commerciali. Ed è quello che denuncia nel tempo il cronista, seguendo anche le attività investigative dei Carabinieri in quel periodo, che ad esempio sequestrano il negozio di moda intestato alla moglie del boss; ma anche il tentativo di entrare negli appalti post terremoto dell’Irpinia con cooperative, in un sistema politico e persino giudiziario non favorevole. Ci sono forse coperture a un livello più alto, sulle quali ha scoperto qualcosa ma ad oggi non sono noti tutti gli intrecci della “holding Gionta” e restano aperti diversi interrogativi. Siani, con il suo lavoro, capisce che dietro Gionta c’è molto di più: può contare su appoggi politici e giudiziari molto importanti. Intanto, però, accade qualcosa: l’ascesa del boss dà fastidio agli alleati. Che decidono di ridimensionarlo, ovviamente con metodi camorristici. La strage del 26 Agosto 1984 La strage del 26 agosto 1984 fu un crimine molto efferato, una vera e propria strage sotto la casa del boss, in via Castello, a Torre Annunziata. Quindici uomini armati fino ai denti arrivarono sul luogo con un autobus rubato. Furono uccise otto persone e altre dodici furono ferite. Mandante era la coalizione interna alla Nuova Famiglia Organizzata formata dal clan di Carmine Alfieri, che faceva capo ad Antonio Bardellino, che imperava nella zona del casertano. Il segnale era chiaro: c’era una faida interna e la tensione salì. Siani raccontò anche questa strage, scegliendo di dare voce ai ragazzi del quartiere che si ribellavano alla camorra. Uscì sul Mattino: “In via Castello, sfidando la paura” era il titolo dell’articolo, e raccontò come si viveva in un luogo dominato dalla camorra, odiando la camorra. Le mani sulla ricostruzione e l’arresto di Gionta Giancarlo Siani aveva capito che la camorra locale aveva messo le mani sui fondi per la ricostruzione del dopo terremoto, e su questo si era confidato anche con un consigliere regionale del Pci, Alfonso Di Maio. Lo chiamava e gli leggeva le delibere del Comune, proprio in quest’ottica. E per lui, non era un affare solo locale ma le mire erano le grandi opere. Mentre Giancarlo lavorava su questa pista, l’8 Giugno del 1985 i Carabinieri arrestarono Valentino Gionta, mentre si trovava proprio nella tenuta dei suoi alleati del clan Nuvoletta. Il Mattino affidò la cronaca al giovane giornalista e ancora una volta fu una stilettata che dimostrava che Giancarlo sapeva qualcosa in più. L’articolo che decreta la sua condanna a morte Riportiamo, per non perderne mai memoria, stralci dell’articolo di Giancarlo uscito sul Mattino il 10 Giugno 1985: “Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l’arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse “scaricato”, ucciso o arrestato Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di “Nuova Famiglia”, i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d’influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata negli ultimi anni aveva voluto “strafare”… E proprio il traffico dell’eroina è uno degli elementi di conflitto con gli altri clan, in particolare con gli uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta del mercato A luglio Gionta acquista camion e attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne. Un settore controllato dal clan degli Alfieri di Boscoreale, legato a Bardellino. Troppi elementi di contrasto con i rivali che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il boss di Torre Annunziata Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo da pagare proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana”. La sentenza di morte del clan Nuvoletta Lo dice a chiare lettere il pentito Ferdinando Cataldo: “Si deve ammazzare questo giornalista”. La sentenza di morte viene pronunciata dal clan Nuvoletta, perché Giancarlo ha scritto sul giornale che hanno tradito, che "si sono venduti Gionta". In gergo malavitoso, sono degli infami. Per giunta, scritto tra le righe, ci sarebbe stata anche una soffiata alle forze dell’ordine. “Se i siciliani leggono queste cose – riferirà poi Cataldo sui ragionamenti di quei giorni - cosa possono pensare Salvatore Riina o Bernardo Provenzano?”. Gionta, dal carcere, si oppone, afferma di credere che non siano stati loro a “venderlo”, ma la sentenza di morte viene emessa ugualmente. Non a Torre Annunziata, chiede il boss destituito. E questo gli viene accordato. A quell’omicidio vuole partecipare anche Cataldo, ma all’ultimo momento gliene viene commissionato un altro, per cui non parteciperà all’agguato sotto casa di Giancarlo, portato a termine con una calibro 7.65, anziché una calibro 9, “perché non si doveva vedere”: la calibro 9 è considerata la firma della mafia. L’omicidio di Giancarlo Siani È il 23 Settembre 1985. Giancarlo è al giornale, come sempre. Prova a trovare i biglietti per il concerto di Vasco Rossi, ma non ci riesce. È sold out. Allora torna a casa, a Napoli, nel quartiere Vomero. Lo aspettano. Dieci colpi alla testa, dieci. Per farlo tacere. Anni dopo, il pm antimafia Paolo Itri avrebbe dichiarato che è improbabile che il suo omicidio non sia stato autorizzato da Totò Riina, proprio in virtù del fatto che i Nuvoletta erano considerati parte integrante di Cosa Nostra. Dopo l’omicidio di Siani, per sette anni la magistratura non riesce a imboccare la pista giusta: solo nel 1992, con le dichiarazioni di un pentito, il magistrato Armando D’Alterio riapre il caso. Ma ci vorranno altri undici anni di processi per le sentenze. Condannati come mandanti sono Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante. Esecutori, Armando del Core e Ciro Cappuccio. Gaetano Iacolare, autista del commando, condannato a 28 anni di reclusione, è uscito pochi mesi fa per fine pena. Ma la verità non può dirsi ancora definitiva. Cosa sapeva Giancarlo Siani? È questa la domanda che, al fondo, agita la verità imperfetta sul suo omicidio. Il giorno dopo la sua morte, il cronista avrebbe dovuto vedere Amato Lamberti, attivista anticamorra e politico col quale aveva collaborato per il periodico “Osservatorio sulla Camorra”. Avrebbe dovuto parlargli di qualcosa di scottante che aveva scoperto, ma lontano dalla redazione del Mattino, ed è per questo che l’appuntamento fu rimandato. E così sarebbe dovuto avvenire anche con il consigliere regionale Di Maio, il 25 Settembre. Ma cammino verso la verità di Giancarlo fu brutalmente spezzato, insieme alla sua vita. Giancarlo Siani è vivo a 40 anni dalla sua morte “Mai avrei immaginato che dopo 40 anni il ricordo di Giancarlo fosse così vivo e non solo a Napoli, ma in tutto il Paese e anche a Bruxelles dove oggi pomeriggio sarà ricordato in un convegno con la Presidente del Parlamento europeo”, spiega emozionato Paolo Siani, il fratello, a Sky TG24 Insider. Da sempre è impegnato, per lui e per la legalità, a portarne avanti la memoria. “Giancarlo voleva solo fare il giornalista, e benché molto giovane, faceva un giornalismo d’inchiesta e si muoveva in una terra nemica, che non era solo la terra di camorra ma anche quella del giornalismo. Nel marzo del 1985 Giancarlo, in un saggio pubblicato dall'osservatorio sulla camorra diretto dal professor Lamberti, aveva posto il problema della assoluta carenza di indagini sulle coperture e le connivenze politiche di cui la camorra a Torre Annunziata godeva. Per lui occuparsi di questi temi non era routine giornalistica, ma un impegno etico e sociale. Se poi sei l’unico a scrivere, sconfessando quello che anche il suo giornale aveva scritto pochi giorni prima, e cioè che un mafioso aveva fatto un patto con lo Stato e svelato il nascondiglio di un boss che era latitante in una sua proprietà, allora non hai scampo, sei nel mirino della mafia e la mafia questi giornalisti “impiccioni” non li perdona, li elimina. Otto in Sicilia, uno in Campania: Giancarlo. Mi auguro con tutto il cuore che il sacrificio di Giancarlo serva a far capire ai giovani che la mafia toglie futuro, ti ruba la vita, i sogni, le opportunità, e che il giornalismo d’inchiesta non è solo una tecnica ma è un atto di responsabilità civile oggi più che mai utile”. L’Italia, aggiungiamo noi, è al 49esimo posto per la libertà di stampa, su 180 Paesi, nel World Press Freedom Index 2025 pubblicato da Reporters sans frontières. Proprio per questo, Giancarlo vive e deve vivere nella memoria e soprattutto nell’esempio.

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Gaia Bozza