Foto online senza consenso: le segnalazioni ci sono, le leggi no

Il recente caso del gruppo Facebook “Mia moglie”, all’interno del quale oltre 30 mila iscritti condividevano foto di donne senza consenso, ha riportato al centro dell’attenzione il tema della diffusione non consensuale di materiale intimo, comunemente e impropriamente definito “revenge porn”. Dopo la rimozione del gruppo da parte di Meta e quasi tremila segnalazioni arrivate alla Polizia postale , il fenomeno mostra tutta la sua gravità e la sua crescita costante. In Italia, nel 2024, le segnalazioni al Garante della Privacy hanno raggiunto quota 823: otto volte in più rispetto alle prime rilevazioni del 2021, a due anni dall’introduzione nel Codice Rosso del reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Nel frattempo, nell’Unione europea manca una legge per arginare il fenomeno a livello comunitario così come un sistema di raccolta dati che possa restituire la dimensione del problema. Perché è sbagliato chiamarlo “revenge porn”? Nonostante la legge italiana parli chiaramente di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, l’espressione “revenge porn” continua a essere utilizzata da media, istituzioni e forze dell’ordine nei propri canali ufficiali. Una scelta linguistica che non è neutrale: il termine, infatti, sposta l’attenzione dall’abuso subito alla presunta motivazione dell’autore, rendendo invisibile la vittima e implicando che questa abbia in qualche modo provocato il gesto. L’idea di “vendetta” presuppone inoltre una relazione pregressa tra vittima e aggressore, ma non è sempre così: chiunque può diffondere immagini intime senza consenso, anche di persone che non conosce direttamente. Inoltre, la vendetta è solo raramente il movente principale. La condivisione non consensuale di immagini intime può rispondere a finalità diverse: dal ricatto al controllo, dalla gratificazione sessuale al voyeurismo, fino alla ricerca di status sociale. Per questo, in ambito accademico e da parte dei numerosi gruppi di attivisti che si occupano del fenomeno si preferiscono definizioni più accurate come Image-Based Sexual Abuse o Non-Consensual Intimate Image , che individuano con maggiore precisione la natura del problema. Il fenomeno in Italia In Italia il tema della diffusione non consensuale di immagini intime è emerso con forza nel 2016, dopo la vicenda di Tiziana Cantone, la trentunenne che si tolse la vita in seguito alla circolazione online di alcuni suoi video intimi. Da quel momento, anche grazie agli sforzi della campagna #intimitàviolata, è iniziato un percorso che ha portato nel 2019 all’introduzione di un reato specifico all’interno del Codice penale: da quel momento, chi diffonde immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone coinvolte rischia da uno a sei anni di reclusione e multe da 5mila a 15mila euro. Le pene si applicano anche a chi condivide a sua volta il materiale ricevuto, e diventano più severe se l’autore è o è stato legato da una relazione affettiva con la vittima. Tuttavia, la norma presenta diversi limiti. Come ha spiegato la promotrice della campagna #intimitàviolata e ricercatrice Silvia Semenzin, la legge è stata formulata in modo frettoloso e ricalca in gran parte quella sullo stalking, senza tener conto delle specificità del fenomeno. Mancano, ad esempio, indicazioni chiare sulla responsabilità delle piattaforme e strumenti adeguati per affrontare la diffusione di massa, come avviene nei gruppi Telegram o Facebook con migliaia di partecipanti. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Dal 2021 il Garante della Privacy ha iniziato a raccogliere segnalazioni legate alla diffusione non consensuale di immagini intime, aprendo sul proprio sito istituzionale una procedura online dedicata. Nel 2024, le segnalazioni al Garante della Privacy sono state 823, una cifra otto volte superiore rispetto alle prime rilevazioni . La maggior parte delle segnalazioni arrivate nel 2023 riguarda episodi di sextortion, un termine che nasce dall’unione delle parole sex ed extortion ed indentifica la minaccia o condivisione del materiale a scopo di estorsione . Accanto a questi casi, sono emerse anche segnalazioni di deepfake, contenuti manipolati o interamente creati con sistemi di intelligenza artificiale. Il fenomeno nell’Unione europea A livello europeo, non esiste ancora un sistema unico che raccolga i dati nei diversi Paesi membri, né un’indagine comparabile che permetta di misurare la reale portata delle varie forme di cyberviolenza. Le informazioni disponibili provengono soprattutto da ricerche dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali , che ha condotto due grandi indagini nel 2014 e nel 2019. Il primo studio, realizzato tra il 2012 e il 2014, si concentrava sulla violenza contro le donne e includeva una sezione dedicata alle molestie online: secondo i dati, una donna su dieci aveva subito almeno una forma di molestia digitale dall’età di 15 anni, mentre il 5% dichiarava di averne fatto esperienza nei dodici mesi precedenti alla rilevazione. Le forme più frequenti comprendevano messaggi o immagini sessuali non richieste e commenti offensivi o minacciosi. Tuttavia, mancava qualsiasi riferimento specifico alla diffusione non consensuale di immagini intime. Con l’indagine del 2019, l’agenzia ha ampliato lo sguardo, raccogliendo dati disaggregati per genere e includendo varie tipologie di molestie. I risultati hanno mostrato che il 13% delle donne e il 15% degli uomini nell’Unione europea avevano subito episodi di cybermolestie nei cinque anni precedenti. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Tra le persone di età compresa tra i 16 e i 29 anni, la percentuale saliva al 27%, rendendo evidente come la violenza digitale colpisca in modo sproporzionato le fasce d’età più giovani, particolarmente esposte all’uso intensivo delle piattaforme social. In termini più ampi, circa due europei su cinque hanno dichiarato di aver subito una qualche forma di molestia nei cinque anni precedenti alla rilevazione, che corrisponde a quasi 110 milioni di persone nei 27 Paesi membri. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Questi dati vanno letti tenendo conto di due limiti strutturali. Il primo riguarda la raccolta nazionale: ogni Stato membro utilizza metodologie differenti, a volte mescolando violenze online e offline, altre volte ignorando del tutto le forme digitali. Il secondo limite è quello del sommerso: i numeri ufficiali basati sulle denunce alle autorità sono inevitabilmente sottostimati, perché molte vittime non segnalano quanto subito, per paura di ritorsioni, sfiducia nella giustizia o timore dello stigma sociale. Alla frammentazione dei dati si somma quella delle leggi, dato che non tutti i Paesi membri riconoscono e puniscono il fenomeno. Tra i Paesi che hanno adottato norme specifiche ci sono, ad esempio, il Belgio, che dal 2020 prevede multe da 200 a 15mila euro e pene detentive fino a 5 anni e Malta, nel 2016, ha inserito un articolo specifico nel Codice Penale, stabilendo pene fino a 2 anni di carcere e multe tra i 3mila e i 5mila euro. Al contrario, altri Paesi, non hanno introdotto una norma dedicata: è il caso del Portogallo, dove le vittime possono ricorrere a leggi già esistenti in materia di frode informatica, intrusione della privacy o, in sede civile, richiedere risarcimenti. Un passo in avanti importante a livello comunitario è arrivato nel 2024 con la Direttiva 2024/1385, che per la prima volta ha introdotto una base giuridica comune per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. La direttiva criminalizza, tra gli altri reati, la condivisione non consensuale di immagini intime, il cyberstalking, il cyberharassment e l’incitamento online all’odio o alla violenza e stabilisce i livelli minimi per la pena massima della reclusione per le forme più gravi di questi reati. La direttiva deve essere recepita nel diritto nazionale entro il 14 giugno 2027, con effetto immediato.

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Roberta Cavaglià