Foto online senza consenso, perché è difficile chiudere gruppi e siti

Dopo la mobilitazione di 150 mila persone tramite una petizione online, anche Phica.net, il forum dove venivano condivise foto intime non consensuali di donne e minori, è stato chiuso. Non dalla polizia postale, ma dagli amministratori stessi, che con un messaggio al pubblico hanno dichiarato di averlo oscurato perché “ci sono persone che usano in modo scorretto le piattaforme”, evitando di assumersi ogni responsabilità. Per Federica Pucino e Virginia Ciambriello, attiviste del Collettivo Clara, associazione nata nel 2021 per sensibilizzare sulle tematiche della violenza di genere, in particolare quella online, e di offrire supporto a chi la subisce attraverso psicologhe e assistenti legali, siamo davanti a un sistema “tipo idra”: viene eliminato un gruppo, magari per la pressione mediatica del momento, “e poi da tre esistenti passiamo a cinque, da dieci a venti”. Ma perché una volta scoperti è così difficile far chiudere questi gruppi? Anche la petizione su Change.org era stata aperta nel 2023, ma ci sono voluti due anni perché gli amministratori in qualche modo si sentissero sotto osservazione pubblica. "Si ragiona sempre sull'urgenza" Il motivo “è che ragioniamo sempre sull'urgenza, invece di lavorare sul problema come una questione sistemica”, denuncia Silvia Semenzin, sociologa, autrice insieme a Lucia Bainotti del libro “Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone” , uscito a seguito di un’analisi qualitativa di un campione di conversazioni in 50 canali e gruppi di Telegram italiani, di cui avevamo già parlato un anno fa. “È esemplificativo il fatto che sia sempre onere delle attiviste o delle utenti andare a segnalare”, continua la sociologa, “perché mancano processi istituzionali che consentano di denunciare e far rimuovere questi materiali immediatamente. Il caso del gruppo Facebook è emblematico: in teoria Meta dovrebbe seguire il Digital Services Act e probabilmente sarà multata, ma nonostante le leggi e i regolamenti, alle piattaforme fa comodo avere questi gruppi perché su questo tipo di dinamiche si gioca tutta la cultura e l’economia di internet, almeno quella attuale”. È d’accordo anche Andrea Baldrati, avvocato e presidente di Privacy Network, per cui emerge però anche una causa geopolitica a queste difficoltà: “È chiaro a tutti che adesso c’è una resistenza americana alle regole europee. Mi è capitato di dovermi attivare professionalmente su questi casi ed è sconcertante come ancora oggi le piattaforme americane sembrino rispondere più al Digital Millennium Copyright Act che al Digital Services Act europeo. Se Trump dichiara che la sovranità digitale americana è sacra e che le normative europee sono discriminatorie, è chiaro che le piattaforme si sentono supportate dal governo americano e non si adeguano come dovrebbero al DSA”. Come il ritorno di Trump ha impattato sulla situazione L’arrivo di Donald Trump al potere negli Stati Uniti ha aperto sì la strada alle piattaforme per “disobbedire” alle regole europee ma ha anche dato il via libera agli utenti di comportarsi in modo meno rispettoso online. “Non è un caso che tutto questo tipo di fenomeni si sia rinforzato a partire dall’insediamento di Trump e del patto tra Trump e i CEO della Big Tech”, conferma Semenzin. “Questo l’avevamo previsto ed effettivamente quello che sta succedendo è che la violenza sta triplicando, quadruplicando, e le piattaforme non hanno alcun interesse a contrastarla, anzi spesso la incitano. Sono loro stesse a creare e rinforzare quel modo di stare online”, aggiunge. L’odio online, la violenza, funzionano. Producono interazioni, condivisioni, engagement facilmente monetizzabile: “Internet è stato costruito sull’idea dell’oggettificazione femminile e dello sfruttamento del corpo femminile come fonte di reddito. E questo non può cambiare finché non viene riconosciuto come un problema strutturale”, conferma Semenzin. Così gruppi e siti schivano i controlli Per Baldrati ci sono anche problemi strutturali e tecnologici rispetto alla chiusura dei gruppi, perché stiamo parlando di contenuti che si spostano su piattaforme diverse, spesso ospitati in giurisdizioni multiple, le persone si nascondono dietro pseudonimi, usano canali semi-chiusi, ed è difficile intercettarli. “Ci sono tecniche di elusione degli hash, le impronte digitali dei contenuti, che complicano ulteriormente le cose: basta una modifica lievissima a una foto perché l’hash cambi”, ci spiega. Ed ecco che la collaborazione tra Stati e piattaforme sarebbe fondamentale: “Così, se un contenuto è già stato segnalato come sessualmente esplicito e non consensuale, verrebbe bloccato prima ancora dell’upload su qualunque piattaforma”, aggiunge l’avvocato di Privacy Network. Il ruolo dell'Autorità garante Ma chi può decidere che un gruppo, un sito intero o un canale vadano chiusi? “Sul piano legale sappiamo che l’Autorità garante può intervenire: l’articolo 144-bis attribuisce al Garante la competenza in materia di revenge porn. Entro 48 ore dal ricevimento della segnalazione deve decidere con un provvedimento d’urgenza per la rimozione, ma lo stesso Garante ha detto più volte che questa procedura può funzionare nel caso di segnalazioni singole”, continua Baldrati. “Quando invece parliamo di fenomeni di massa, di rimozioni su larga scala, deve entrare in gioco il Digital Services Act. E purtroppo la sua applicazione pratica, fino ad ora, è frenata da limiti geopolitici e dal potere delle piattaforme americane”. Nei giorni dopo la segnalazione dell’esistenza del gruppo Facebook “Mia moglie”, chiuso dalla piattaforma dopo più di 48 ore, ci sono state alcune critiche rivolte a chi aveva reso pubblico il nome, con il rischio che le vittime della condivisione di materiale potessero vederlo nuovamente violato. Ma è evidente che è stata anche la mobilitazione di massa ad attirare l’attenzione delle autorità, e finalmente anche della politica, sul tema della violenza online. Per Semenzin, “c’è sempre questa ambivalenza tra il callout, che è necessario, e l’esposizione delle vittime. Io cerco di non citare apertamente i nomi, ma capisco anche chi lo fa: non c’è un giusto o sbagliato”. Chiudere i gruppi non basta In ogni caso, per le attiviste del Collettivo, “La chiusura momentanea dei gruppi non risolve alla radice il problema della violenza di genere, perché manca un’educazione sessuale effettiva che ci educhi al consenso, al rispetto delle soggettività, che decostruisca i ruoli e gli stereotipi imposti fin dall’infanzia”. “In un Paese come l’Italia, in cui si nega costantemente l’esistenza della violenza di genere, sono molto curiosa di vedere adesso come difenderanno l’idea che questa violenza non ha nulla a che fare con il maschilismo”, aggiunge ancora la sociologa Semenzin. E le attiviste confermano: “Possiamo parlare oggi di violenza online come di un fenomeno pervasivo, con ripercussioni psicologiche reali. Ma se se ne parla solo quando esplode un caso mediatico, il resto dell’anno questa violenza continua a esistere anche se non è sotto i riflettori”.

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