Educare in infanzia per evitare “sorprese adolescenziali”

Su un terreno piuttosto inclinato il giovane padre sta radunando, con energici colpi di rastrello, il fieno da raccogliere. La stagione calda accelera la sua maturazione e si possono fare diversi tagli in poche settimane, ma soprattutto oggi pomeriggio è previsto un forte temporale, e questo consiglia di accelerare le operazioni. In montagna il tempo è mutevole. Accanto a quell’uomo agisce, con estrema naturalezza, un bambino di quattro anni che, manovrando un rastrello appena più piccolo di quello usato dal genitore, ostenta un giustificato orgoglio per la partecipazione al successo dell’impresa, perché se ne sente parte. Tale percezione, alimentata dal silenzioso assenso del papà, già di per sé rappresenta un esito educativo di enorme valore. Mi fermo a osservare con discrezione, attratto dalla bellezza di quell’intesa, priva di parole, saldata da un convitato di pietra, la Natura, altrettanto silenzioso. Modellata e incoraggiata dalla quotidianità, quell’armonia spinge il piccolo verso un apprendimento multiplo; infatti, non c’è solo il piacere della funzione, c’è la voglia di sentirsi grande, ai bambini questo piace, uno dei loro maggiori desideri è “somigliare”, li fa sentire parte del mondo degli adulti, dunque importanti. Infine, ma forse c’è anche tanto altro, spicca bisogno di compiacere il padre, condividendone la fatica. Certo, il contributo di quello scricciolo sul piano pratico è limitato, ma è evidente che padre e figlio stanno esercitando una sintonia profonda che li fa stare palesemente bene e che si cementa a ogni colpo di rastrello. Non è una visione frequente, la velocità di esercizio delle nostre esistenze e i sempre più evidenti eccessi di individualismo, erodono il tempo che dovremmo dedicare ai nostri figli, che di quella disponibilità sono assetati perché ne desumono il grado di interesse nei loro confronti. Quando ci consoliamo parlando di qualità del tempo e non solo di tempo, dimentichiamo che la qualità senza tempo è come l’energia senza la massa. È come se entrambi, genitore e bambino, “sapessero” che c’è in gioco un orizzonte vitale di cooperazione, di solidarietà, all’interno del quale fa da sfondo un terzo partner generoso ma severo ed esigente, come la già richiamata Natura. Infatti, il padre non dà l’impressione di giocare col figlio, tutt’altro, mentre il piccolo sembra capire bene che non si sta scherzando e che il suo contributo è importante. Siamo di fronte a un quadretto educativo meraviglioso, per alcuni versi perfetto, che alimenta la propria magia grazie al verbo “stare”, percepito dal bambino come un giudizio di valore positivo nei suoi confronti e rinforzato dal padre, che fa percepire al figlio il valore reale del suo lavoro, del suo ruolo. In genere le cose tra grandi e piccoli vanno diversamente, l’attenzione dei genitori per i figli si impenna solo dopo l’infanzia ed è spesso determinata dall’arrivo di svolte inattese. L’aggettivo “inatteso” in questo caso significa che gli adulti non avevano chiaro ciò che stava accadendo, non perché fossero addormentati, ma semplicemente perché si erano persi una serie di passaggi precedenti, in corrispondenza dell’infanzia, proprio quelli che il papà, che conduce un’azienda agricola molto evoluta, dove non mancano le mucche da latte, sta rispettando. Un tempo della vita, i primi anni, a cui tendiamo a dare solo un significato affettivo e ludico perché i bambini all’inizio sono davvero irresistibili, delle vere calamite, ma anche piuttosto allenati a lucrare sull’interesse potente e non di rado acritico che i genitori e altre figure parentali vicine mostrano nei loro confronti. Ai piccoli si praticano sconti che farebbero fallire qualsiasi attività, si tende a lavorare sottocosto, perché il loro arrivo nella nostra vita rappresenta un evento talmente esaltante da farci dimenticare che le linee di indirizzo e le strategie che caratterizzeranno il loro comportamento stanno prendendo corpo proprio mentre noi siamo persi nella loro simpatia. In questi momenti, quelli in cui il magma si sta condensando in linee di indirizzo sempre più strutturate, il bambino necessita di educazione perché ciò che non faremo adesso aprirà la strada a quelle sorprese adolescenziali e giovanili, che in realtà non sono sorprese ma conseguenze di omissioni pedagogiche, di mancate seminagioni o addirittura di faciloneria che ci induce a pensare a un bambino che si auto educa o che deve limitarsi a fare ciò che diciamo noi grandi, rinunciando a quote importanti di sé. Tutto questo incuberà, preparando un’epoca di incomprensioni, di distanza, perché arriva il momento delle consapevolezze e il bambino di una volta leggerà con maggiore precisione ciò che è stato e che non è stato, traendone conseguenze, non sempre chiarissime ma che lo impregneranno di sensazioni persistenti. Non è il momento di alzare bandiera bianca, per un genitore o un insegnante, ma di certo è il tempo delle domande senza alibi, perché i figli, come la Natura, sono generosi e sanno di doverci delle seconde possibilità. A noi il compito di coglierle. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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