Cristina Cattaneo, la donna che parla con i morti

“I cadaveri parlano. Basta saperli capire e leggere. E identificarli è fondamentale per ridare dignità ai morti. Ma dare loro un nome è essenziale soprattutto per i vivi”. L’incontro con Cristina Cattaneo avviene nel suo laboratorio – il Labanof – il Laboratorio di Antropologia e odontologia forense dell'Università degli Studi di Milano. Arriva sorridente, trafelata, senza un filo di trucco. Di quelle donne che svolgono un lavoro troppo delicato ed oneroso per preoccuparsi del superfluo. Parla senza mai fermarsi, e ti travolge con il racconto della sua vita. Patologa forense, ma con studi di archeologia e antropologia alle spalle, ha effettuato le autopsie sulle vittime dei più importanti casi di cronaca degli ultimi anni nel nostro paese: Elisa Claps, Stefano Cucchi, Yara Gambirasio, solo per citarne alcuni. Anche se il suo impegno più importante lo rivolge ai “morti invisibili”: i migranti dispersi durante i grandi naufragi nel mediterraneo. Il riconoscimento dei migranti morti in mare Era la notte del 18 aprile 2015 quando un peschereccio partito dalla Libia si inabissò a 400 metri di profondità con il suo carico di mille giovani vite. Nei mesi successivi il governo italiano diede il via a una delle più grandi operazioni umanitarie europee mai condotte, la Missione Melilli, con la quale il Labanof iniziò il difficile e articolato lavoro di riconoscimento delle vittime nella base di Melilli appunto, in provincia di Siracusa. Furono recuperati 528 cadaveri decomposti e oltre 30.000 resti scheletrici. L’attività identificativa è ancora in corso. E ad oggi sono oltre 400 le famiglie che hanno fatto richiesta di sapere se tra quei resti c’è un loro congiunto. “Restituire l’identità ai morti vuol dire restituire un nome e un cognome a un cadavere. E tutto questo – mi spiega Cristina Cattaneo - è fondamentale per una serie di motivi poco conosciuti. Tutti pensano che dare un nome a un cadavere disperso in mare o ritrovato in un bosco sia indispensabile per ridare a questa persona la sua storia e la sua dignità. Restituire l'identità ai morti è un atto che serve anche alla giustizia: immaginiamo per esempio di fare delle indagini su un corpo ritrovato senza sapere chi è la vittima. Ma i morti vanno identificati soprattutto per i vivi. È molto poco noto – prosegue Cristina Cattaneo - lo scompenso psicologico e anche psichiatrico di chi vive nel limbo di non sapere se il proprio caro sia vivo o morto. Quindi identificare un morto è prima di tutto un diritto di chi cerca quel morto, della famiglia che sta dietro quel morto. E a questo punto – conclude Cristina Cattaneo - diventa un diritto anche alla salute, alla salute mentale dei parenti degli scomparsi. L’ARCHIVIO DEI CADAVERI In 30 anni di attività il Labanof ha contribuito all’identificazione di centinaia di cadaveri, grazie anche all’elaborazione di un archivio che si occupa di catalogare e pubblicare online gli identikit di resti umani sconosciuti. Un database che aiuta a riconoscere i cadaveri senza nome, fornendo informazioni utili per i familiari di persone scomparse, ma anche per le indagini forensi. Grazie all’archivio dei cadaveri, unico nel suo genere in Italia e al lavoro instancabile del team di Cristina Cattaneo, molte famiglie hanno potuto ritrovare i corpi dei propri cari e dare loro una sepoltura dignitosa. Gli ultimi dati ci dicono che al 30 aprile 2025, nel nostro paese, ci sono 1.108 cadaveri non identificati: oltre mille persone morte senza un nome e senza essere state riconosciute. L’archivio dei cadaveri è fondamentale perché consente di confrontare i dati di una persona morta - DNA, sesso, impronte digitali, denti, segni distintivi come i tatuaggi – con i dati delle persone scomparse. Ecco perché i database sono fondamentali perché sono utili per fare il match e dire: il cadavere di questa persona appartiene a “Mario Rossi”. Oggi una tecnologia sempre più sofisticata ci consegna immagini sempre più dettagliate e precise e per esempio con la tecnica della ricostruzione facciale siamo capaci di restituire un volto a un cadavere anche in avanzato stato di decomposizione. Riusciamo a risalire al viso com’era e questo è davvero incredibile. "Tante volte in questi 30 anni di attività – prosegue Cristina Cattaneo - ho avuto dei momenti in cui mi sono chiesta: ma a chi perde, chi cerca un familiare, può davvero essere utile sapere che il loro congiunto non c’è più? E tutte le volte che mi chiedevo questa cosa, in maniera quasi provvidenziale, succedeva un'identificazione e c'era il feedback della figlia, del padre dello scomparso che era stato identificato. E devo dire che tutte le volte c'è stata una reazione positiva da parte della famiglia: sicuramente la disperazione, la tragedia, ma anche la possibilità per loro di uscire dal limbo dell’incertezza, mettere un punto definitivo su una vicenda dolorosa e iniziare un lutto. E questo mi fa capire che bisogna continuare a identificare i cadaveri senza nome perché i familiari ci raccontano che dopo sono più sollevati". LE AUTOPSIE, LA SVOLTA DOPO YARA GAMBIRASIO Ma il Labanof, nel corso degli anni, ha ricevuto la richiesta da parte delle Procure di tutta Italia, di effettuare le autopsie sui resti umani ritrovati dopo molto tempo o sui cadaveri al centro dei più importanti ed efferati fatti di cronaca del nostro Paese. È il 26 febbraio del 2011, quando in un campo a Chignolo d’Isola viene ritrovato, il corpo di Yara Gambirasio: la 13enne era scomparsa da Brembate di Sopra esattamente tre mesi prima. Insieme ai carabinieri dei Ris sul posto arriva immediatamente la professoressa Cristina Cattaneo. A lei viene affidato il compito di effettuare l’autopsia sul cadavere della ragazzina. Ed è una svolta: da allora, ci dice Cristina Cattaneo, il modo di eseguire le autopsie giudiziarie nel nostro paese è radicalmente cambiato. Il segreto consiste nel rintracciare l’invisibile. Insieme al DNA, oggi attorno a un cadavere si possono cercare le polveri che raccontano l’ambiente in cui il corpo è stato ritrovato. Perché laddove non c'è nulla, che io non vedo, non vuol dire che non c'è nulla microscopicamente. E con l’utilizzo di un microscopio a scansione, sul corpo e sulla pelle possiamo rintracciare non solo il DNA ma tanti altri elementi che sembrano che non ci siano. "Altra cosa molto importante- continua Cristina Cattaneo - è che a volte ti devi portare in laboratorio un pezzo della scena del crimine. E questo perché un corpo in un ambiente, dopo un po' di tempo, scambia elementi con l’ambiente; quindi, parte dell'ambiente diventa parte del corpo e viceversa. Tutta l'interfaccia tra il corpo, il terreno, l'erba, la sabbia, quello che sta sotto un cadavere ha delle informazioni molto, molto importanti. Alcune cose, tipo residui di colpo d'arma da fuoco, le fibre magari lasciate in una colluttazione, possono depositarsi nel terreno; quindi, se tu non porti a casa quel pezzo sotto, non porti a casa tutta l'evidenza. Ed è quello che abbiamo fatto per la prima volta nel caso di Yara Gambirasio: portando in laboratorio un pezzo del terreno dove era stato ritrovato il corpo. E questo metodo ci consentì di ritrovare sugli indumenti di Yara segni di calce, ritrovamento che risultò poi fondamentale per le indagini".

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