I numeri di Mattarella e Meloni erano online? Tanto rumore per nulla

Di recente è emerso che i numeri di telefono privati di alcune delle più alte cariche istituzionali italiane, tra cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni, sarebbero stati “hackerati”. La notizia, rilanciata sui social e ripresa da alcune testate giornalistiche, ha generato allarme e reazioni istituzionali. L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale ha subito definito la questione non veritiera, ma la segnalazione ha comunque portato la Procura di Roma ad avviare un atto dovuto, con l’intervento del Garante Privacy e del Copasir. I primi accertamenti hanno confermato l’assenza di violazioni di sistemi istituzionali o intrusioni sofisticate. Cosa è successo? I dati telefonici erano reperibili online attraverso note e conosciute piattaforme commerciali di data brokerage, usate nel marketing B2B . Si tratta di servizi che aggregano informazioni pubbliche e semi-pubbliche — numeri aziendali, email, ruoli professionali — per aiutare le aziende a contattare potenziali clienti o decisori in maniera mirata. Questi enormi database si alimentano nel tempo grazie a iscrizioni a eventi, registrazioni a piattaforme, profili social professionali o acquisizioni di dati da terze parti. È sufficiente una registrazione con un’email aziendale e un abbonamento per accedere a centinaia di migliaia di contatti. Spesso i dati risultano parziali o datati, ma rimangono disponibili e utilizzabili senza particolari barriere. Non siamo di fronte a una sofisticata operazione di spionaggio cibernetico né a un caso di hackeraggio hollywoodiano. Siamo di fronte a un fenomeno globale, strutturale, perfino banale: la sovraesposizione volontaria dei nostri dati personali. Una dinamica che non nasce oggi, né ieri. Semplicemente, oggi ci tocca ammettere quanto poco controllo abbiamo effettivamente mantenuto su ciò che, per anni, abbiamo disseminato in rete con leggerezza: l'illusione della privacy. La cosiddetta “fuga di dati” non ha visto violazioni di server governativi, né intrusione di sofisticati malware di Stato. I dati erano già lì, disponibili, aggregabili, tracciabili. Siamo noi che abbiamo progressivamente rinunciato a brandelli della nostra privacy, in cambio di comodità, servizi gratuiti, socialità digitale. Portabilità del numero, account social, iscrizioni a newsletter, piattaforme di streaming: ogni click, ogni "accetto" ha contribuito ad alimentare un mosaico in cui la nostra identità digitale è diventata qualcosa di estremamente vulnerabile. Il paradosso è evidente: difendiamo la nostra riservatezza con dichiarazioni d’intenti, mentre nella pratica quotidiana sacrifichiamo privacy sull'altare della praticità. Firmiamo informative senza leggerle, cediamo dati sensibili per un algoritmo più preciso o un'app più "smart", ignorando spesso le implicazioni profonde. La lezione più importante, dunque, non riguarda la sicurezza tecnica, ma la cultura della sicurezza. Serve un ripensamento radicale. Non basta indignarsi a posteriori. Non basta invocare nuove leggi o inasprire le pene: occorre un cambiamento nel modo in cui cittadini, istituzioni e aziende percepiscono e gestiscono la propria identità digitale. Per anni abbiamo considerato la privacy un diritto assoluto, statico, garantito "per natura". Ma l’evoluzione tecnologica ci insegna che non è più così: la privacy oggi è un processo dinamico, che richiede attenzione, competenze, responsabilità individuale e collettiva. Le istituzioni, certo, devono rafforzare strumenti e strategie per proteggere i dati sensibili. Ma sarebbe un errore drammatico pensare che basti blindare i server per risolvere il problema. Serve una vera educazione alla cybersecurity, un approccio proattivo, non reattivo. Tecnologia e responsabilità: un equilibrio possibile Il caso dei numeri online mostra, ancora una volta, che la tecnologia non è né buona né cattiva di per sé. È neutra. È l'uso che ne facciamo a determinare gli esiti. Da qui l’urgenza di sviluppare strumenti più trasparenti per la gestione dei dati, ma anche di diffondere una cultura che promuova la responsabilizzazione individuale. Non possiamo più permetterci di vivere in uno stato di inconsapevolezza digitale. Serve più attenzione nella gestione delle utenze personali, nella separazione tra sfera privata e sfera pubblica, nel controllo di cosa concediamo e a chi. E non basta vietare o bloccare l’accesso a certi dati: bisogna intervenire prima, a monte. Promuovere prassi virtuose di gestione dei propri dati già nel momento in cui si aprono account, si stipulano contratti, si usano piattaforme digitali. A una settimana dal clamore iniziale, resta l'esigenza di voltare pagina. Non si tratta di chiudersi in una sterile difesa della privacy come bene intangibile, ma di ripensarla come costruzione consapevole, quotidiana, partecipata. Non si tratta solo di difendere i dati, ma di ricostruire il patto di fiducia tra cittadini, istituzioni e tecnologia. Il vero futuro della cybersecurity non passerà attraverso muri invalicabili, ma attraverso teste pensanti. Attraverso un equilibrio maturo tra innovazione tecnologica e responsabilità individuale. Attraverso un cambio di paradigma: da utenti passivi a custodi attivi della propria identità digitale. Solo così il “rumore per nulla” di oggi potrà diventare, domani, il primo passo verso una cultura della privacy finalmente all’altezza delle sfide del nostro tempo.

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