Valutare il rischio di femminicidio con i dati può salvare vite

Aurora Tila di 13 anni, Sara Centelleghe di 18 anni, Flavia Mello Agonigi, 54 anni, Celeste Rita Palmieri, 56 anni: sono i nomi delle ultime vittime di femminicidio, per un totale di 94 donne uccise da inizio anno in Italia, secondo i numeri forniti dal Ministero dell’Interno. Questi dati, che rimangono stabili da anni, mentre diminuiscono gli omicidi dovuti alla criminalità di strada, mostrano quanto lavoro sia ancora possibile fare nell’ambito della prevenzione della violenza e nell’educazione all’affettività. Dal 2009 però esiste uno strumento potentissimo in dotazione ai centri antiviolenza per fermare l’escalation di violenza in una relazione prima che sia troppo tardi: si chiama Sara , ed è un questionario di valutazione del rischio sviluppato e utilizzato per la prima volta in Canada nel 1995 da due ricercatori, P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, con funzione sia predittiva che preventiva, perché permette di valutare il rischio di recidiva per chi ha agito violenza contro la partner o ex-partner. Non sempre le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza hanno piena consapevolezza della situazione che stanno vivendo. Spesso sono consigliate dalle amiche, le prime a cui si parla dei propri dubbi, o dalla madre, se sono molto giovani, ma arrivare a considerare “violenta” o anomala, la relazione in cui sono finite non è così semplice. “Il metodo SARA e la versione aggiornata SARA-S sono strumenti di valutazione del rischio che utilizziamo regolarmente dal 2009 nel centro antiviolenza, sia individualmente sia con il coinvolgimento diretto della donna”, racconta Francesca Maur, operatrice del centro antiviolenza G.O.A.P. di Trieste e consigliera nazionale della rete D.i.Re. Questo tipo di questionario viene usato quando esiste una consapevolezza già abbastanza consolidata, la persona si rivolge al centro proprio per trovare una soluzione e una via d’uscita alla relazione. Ma non sempre succede. “Spesso si sottostimano i segnali di pericolo o si prova disagio senza riconoscerlo come paura. Lavorando con gli indicatori di rischio, sia legati all’aggressore che a possibili vulnerabilità della vittima , riusciamo a fornire una valutazione accurata del rischio, che può essere bassa, media o alta", spiega. Esiste quindi un secondo strumento di autovalutazione, il questionario ISA , che può aiutare la donna a riconoscere i segnali di violenza attraverso semplici domande: "Abbiamo avuto il caso di una madre che ci ha chiamato preoccupata per la situazione della figlia, in una relazione che per lei era già al limite, anche se di soli sette mesi. Le abbiamo dato il questionario Isa da fare insieme alla figlia, e il giorno dopo è arrivata lei stessa al centro per chiederci aiuto”, racconta ancora Maur. Non tutte le donne vittime di maltrattamenti o stalking finiscono in tragedia, e solo una piccola percentuale di femminicidi avviene senza segnali premonitori. Ma intraprendere un percorso in un centro antiviolenza può essere davvero salva-vita. Maur conferma che “Tra i femminicidi che hanno luogo in Italia, sono rarissimi i casi di donne seguite dai centri antiviolenza. Questa valutazione fatta al primo colloquio, rivista durante tutto il percorso della donna presso il centro antiviolenza, mette abbastanza a riparo le donne da aggressioni gravissime o letali. Le decine di donne che vengono uccise ogni anno non sono donne seguite, salvo casi rarissimi. Possono aver avuto contatti, magari un primo contatto o un invio obbligatorio dalle forze dell’ordine, ma se non hanno continuato il percorso, purtroppo restano esposte a un rischio elevato”. Secondo l’ultima indagine disponibile svolta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi in Italia, che ha analizzato i casi nel 2017-2018, solo il 2,5% delle donne uccise si era rivolta a un CAV, ed era stata seguita, in media, per tre mesi. “Purtroppo è la donna stessa che deve decidere di uscire da una relazione violenta, non si può costringere e noi non possiamo chiamarla se interrompe il percorso, perché questo potrebbe metterla in una situazione di pericolo maggiore”, spiega ancora Maur. Solo il 15% delle donne aveva sporto denuncia o querela per precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai propri danni, ma nel 58,6% dei casi le donne che avevano sporto denuncia ne aveva sporta più d’una e, addirittura, il 34,5% tre o più. La violenza reiterata è infatti uno degli elementi di rischio presenti nel SARA, non solo nella relazione attuale, ma anche in quelle pregresse. Per Maur, "Senza consapevolezza del rischio, uscire dalla violenza può risultare ancora più difficile”. Il problema della violenza domestica non si risolve del tutto solo usando un questionario, ma investire in metodologie di valutazione del rischio e nella raccolta dei dati può fare la differenza nella vita di molte donne.

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