Perché i dottorandi sono in protesta?

Contro i tagli presentati in manovra, non si mobilita solo la scuola dell’obbligo. Le proteste muovono anche l’accademia e i dottorandi, riuniti sotto sei sigle guidate dall’Associazione italiana dottorandi , si sono dati appuntamento per il 25 ottobre a Roma. Dall’aula A del dipartimento di Scienze biochimiche della Sapienza di Roma, la contestazione non ha mosso reazioni nel governo ma i toni dei giovani ricercatori sono stati ugualmente duri: “Denunciamo le devastanti conseguenze delle attuali politiche governative sul comparto della Ricerca e dell’Università – si legge in una nota di Adi – la nostra categoria è ormai strangolata da anni di tagli e precariato strutturale”. Nel mirino c’è il Ddl 1240/2024, la riforma Bernini attualmente in discussione al Senato, con cui la ministra dell’Università sta tentando una revisione dei contratti di ricerca. La “lacuna da colmare” è quella degli assegni che non saranno prorogati oltre il 31 dicembre 2024, come voluto dal governo Draghi per favorire l’introduzione di contratti a tempo determinato. Per sopperire, il governo ha ideato una “cassetta degli attrezzi” di contratti per dottori e laureati magistrali. “Un vero e proprio attacco ai giovani ricercatori”, commentano da Adi, puntando il dito contro le nuove figure post-dottorali, ritenute “ancora più precarie, con contratti sempre più deboli e diritti sempre più inesistenti”. Eppure, quella dei giovani ricercatori per stabilizzare il lavoro di ricerca è una battaglia che affonda radici lontane, nel tentativo annoso di affrancarsi dallo status ibrido di studenti-lavoratori. Ma la condizione dei dottorandi italiani è tanto diversa da quella dei colleghi europei? Chi sono i dottorandi Il loro è, per molti aspetti, un profilo ibrido: da un lato i giovani ricercatori, pochi e selezionati, sono studenti da formare al lavoro nel mondo accademico. Dall’altro, pubblicano articoli scientifici e documentano la loro attività di ricerca con relazioni annuali. Legalmente, sono inquadrati come studenti retribuiti tramite borsa di studio. Pagano sia le tasse di iscrizione all’Università e sia le regionali per il diritto allo studio ma, allo stesso tempo, versano anche i contributi per la pensione. Perché, di fatto, il loro è un lavoro a tempo pieno. “Dobbiamo seguire corsi in un contesto di publish or perish per il quale siamo costretti a pubblicare il prima possibile, al meglio possibile e per la rivista più importante possibile”, denuncia Fabrizio, dottorando 32enne all’Università di Perugia. Il suo è un nome di fantasia perché – come racconta a Sky tg24 - “l’anonimato evita di subire pressioni che possono ostacolare la mia carriera accademica e che non mi potrei permettere”. In Italia il 25% dei posti può essere bandito senza borsa, una condizione che costringe molti, per almeno tre anni, a lavorare gratuitamente. Ma non è così ovunque. In Germania i giovani ricercatori sono inquadrati come lavoratori con contratti che possono essere istituiti da Università o privati. Un sistema analogo è diffuso anche in Francia, Spagna e Olanda dove i dottorandi sono dipendenti degli stessi atenei. In Danimarca vale lo stesso principio e, per di più, non esistono posizioni non retribuite. Novanta per cento Con l’avanzare della carriera accademica, le cose non migliorano. La ricerca, nei primi anni dopo il conseguimento del diploma di dottorato, è precaria e instabile. Un numero, che dà il nome anche alla campagna di mobilitazione sostenuta da Adi, sintetizza la questione: 90%. Nove ricercatori su dieci, infatti, dopo 10-15 anni di lavoro a contratto , rinunciano alla carriera accademica. O, meglio, sono costretti a farlo. A raggiungere lo status di professore associato, per non dire ordinario, è una sparuta minoranza che “deve avere capacità di attirare finanziamenti e deve essere sponsorizzata da qualcuno – commenta Fabrizio – Sono rari, nella mia esperienza, i casi in cui a vincere il concorso è un esterno che ha un curriculum ricchissimo”. Secondo Silvia, invece, assegnista di ricerca 32enne “a fare carriera è chi – a parità di stipendio – lavora con abnegazione fino a 50 ore settimanali, perché quelli sono gli stessi ritmi dei professori”. La coperta dei finanziamenti è corta. A fronte di una carenza di docenti universitari , la maggior parte del lavoro di ricerca poggia sulle spalle di dottorandi e assegnisti. “Siamo tra gli ultimi in Europa per finanziamenti all’istruzione superiore in rapporto al Pil – denuncia Rosa Fioravante, segretaria Adi – e per numero di laureati. Molti progetti non hanno il personale per andare avanti”. A fare le spese di un “collo di bottiglia” al 90%, dunque, è anche la qualità della ricerca. Quanto sono pagati i dottorandi in Italia e in Europa? Chi rinuncia alla carriera accademica e oggi protesta per contratti più stabili lo fa, spesso, per le condizioni economiche imposte dal cursus accademico. “Dal mio stipendio di ricercatrice – racconta Silvia – riesco a pagare l’affitto e a togliermi qualche sfizio. Ma per il bollo dell’auto e altre spese di assicurazione devo chiedere l’aiuto dei miei genitori. In sei anni di lavoro, sono riuscita a mettere da parte circa 4.000 euro, non di più. E non ho mai vissuto nel lusso”. Senza contare che, con assegni rinnovati di anno in anno , nessun ricercatore può accedere a mutui e finanziamenti. E, per le ricercatrici, le tutele sono ancora minori. “Se hai una maternità, puoi stare a casa senza problemi ma non pubblichi. Quindi, cerchi di lavorare fino alla fine ma, di fatto, non è possibile avere progetti di vita”, spiega Silvia. La borsa minima, per i dottorandi, si aggira attorno ai 1.500 euro al mese per 13 mesi. A dire il vero, le cifre potrebbero essere più alte ma lo stanziamento è condizionato dai fondi dell’ateneo. Che spesso scarseggiano. “Il Politecnico di Torino bandisce assegni anche a 2.000 euro ma tutti gli altri non fanno così e offrono il minimo”, commenta la segretaria Adi. In Europa, gli stipendi garantiti dalle Università sono molto più alti. In Germania, la retribuzione minima di un dottorando full time ammonta a oltre 3.400 euro. In Francia scende a quasi 2.000 euro lordi, mentre in Olanda è prevista una scala salariale con scatti retributivi annuali che oscillano dai 2.400 ai 3.100 euro. In Austria, lo stipendio minimo lordo sfiora i 2.800 euro mensili. Misure contro la precarietà Nelle aule della Sapienza, perciò, i dottorandi si dicono preoccupati per il loro futuro. Il superamento degli assegni pensato da Draghi era stato accolto con speranza, ma la riforma Bernini è vista come un passo indietro. “Le nuove figure sono, di fatto, una reintroduzione degli assegni, spacchettata in sei forme nuove – commenta Fioravante di Adi – Se introduco figure di docenza che possono durare persino 3 o 6 mesi, quelle saranno assunte dalle università che, non avendo i “punti organico” necessari, useranno loro per tappare i buchi”. Di certo, al momento, c’è solo che la riforma Bernini prosegue il suo iter parlamentare per trovare un’alternativa agli assegni che scadranno il 31 dicembre. Nel testo al vaglio delle Camere si introducono due tipologie di borse di assistenza all’attività di ricerca destinate a neolaureati e a dottori, permettendo di fatto a chi ha appena ottenuto il diploma di svolgere attività di docenza e di collaborazione all’attività didattica. Le altre figure introdotte saranno assunte con contratti lunghi da uno a tre anni. L’obiettivo della ministra Bernini è “porre fine all’inferno del precariato” con “tipologie contrattuali o di borse che si adattino ai diversi ruoli che ricercatori, neolaureati e dottorandi vogliono avere nel ciclo formativo”. Secondo Fioravante , però, la strada del governo è condizionata dai fondi insufficienti: “Se si può scegliere fra contratti lunghi un anno e contratti lunghi tre, tutti proporranno il minimo ai ricercatori. Non cambia assolutamente niente dai vecchi assegni”.

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