Pozzallo e Porto Empedocle: cosa succede dentro ai centri di trattenimento italiani

Una struttura tirata su a tempo di record quella del Centro di trattenimento migranti di Pozzallo, nel ragusano. Assurta agli onori delle cronache quando la giudice di Catania Iolanda Apostolico con la sua sentenza, nell’estate del 2023, aveva rimesso in libertà alcuni cittadini tunisini che erano trattenuti all’interno del centro sulla base del decreto “Cutro” emesso dal governo e che predisponeva il trattenimento dei soggetti provenienti da cosiddetti “Paesi sicuri” fino a quando la loro richiesta di asilo non venisse accettata o respinta. Ma la libertà si sarebbe potuta “acquistare” pagando, stando sempre al decreto, una cauzione di 5000 euro. Nessuno però ha mai versato un euro anche perché le sentenze emesse dal tribunale di Catania hanno sempre disposto il rilascio dei richiedenti asilo che, stando anche alle direttive dell’Unione europea, non potevano essere trattenuti. Polemiche politiche a parte, e sono state tante, tutti i migranti che erano ospitati nel centro di trattenimento di Pozzallo sono stati rilasciati. Nessuno, da lì, è stato rimandato indietro al proprio Paese di origine. "Nessun migrante nel centro per i rimpatri veloci" Il governo, che aveva annunciato ricorso in cassazione contro la decisione della giudice catanese, ha poi ritirato tutto e modificato il decreto togliendo la richiesta della cauzione in cambio del rilascio e dell’attesa della decisione in libertà. Adesso all’interno della struttura, come conferma il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna, non c’è nessuno. “Nessun migrante – per il momento, dice il primo cittadino – è ospitato nel centro per i rimpatri veloci che c’è qui. La struttura è vuota. L’hotspot invece continua a funzionare regolarmente”. Il caso di Porto Empedocle In Sicilia è stato istituito un altro centro del genere. Questa volta a Porto Empedocle, nell’agrigentino ed esattamente accanto all’hotspot che ospita la maggior parte dei migranti che sbarcano a Lampedusa. Fino a poco tempo fa, all’interno della struttura, erano ospitati cinque cittadini di nazionalità tunisina. Il giudice del tribunale di Palermo ha respinto la richiesta di rilascio di 5 migranti ritenendo legittimo il trattenimento all’interno della struttura. In due sono poi stati rimpatriati in Tunisia perché la loro domanda di asilo è stata respinta e dunque, per la prima volta in Italia, è stata applicata la procedura di rimpatrio veloce. In tre invece risulterebbero, al momento, ancora in attesa della decisione sulla loro richiesta di protezione internazionale. Numeri, comunque, molto bassi rispetto a quelli degli arrivi di migranti dai cosiddetti “Paesi sicuri” che si registrano sulle nostre coste. La normativa sui rimpatri è molto complessa e, spesso, in passato soggetta a diverse interpretazioni e a ricorsi sulle decisioni prese. Intanto è necessario verificare quali siano i Paesi di origine dei migranti. Moltissimi tunisini ad esempio, in passato, hanno dichiarato di provenire da altri Paesi africani per evitare, appunto, di essere rimpatriati sulla base di accordi precedenti tra i governi. In aggiunta a questo, e a complicare in maniera significativa le procedure di identificazione, il fatto che praticamente tutti arrivano sprovvisti di documenti. E già questo è, di per sé, un problema che di base viene risolto grazie alla collaborazione dei funzionari delle ambasciate dei Paesi nord africani in Italia. Cosa ci dicono sui nuovi centri in Albania I centri per il trattenimento di Pozzallo e Porto Empedocle hanno lo stesso criterio di quelli diventati operativi in Albania. In teoria, nei piani del governo, l’idea è quella di non far passare dall’Italia i migranti soccorsi che provengono da uno dei 22 Paesi indicati come “sicuri”. Senza toccare il suolo italiano, e dunque venendo soccorsi in acque internazionali da motovedette della guardia costiera o della guardia di finanza e non da navi di Ong, devono essere trasbordati sui pattugliatori della marina militare italiana di stanza nel canale di Sicilia per poi essere trasferiti in Albania così come è successo ai primi sedici migranti giunti nei Balcani. Una volta lì, la decisione sul trattenimento o meno viene fatta dai giudici del tribunale di Roma. Con questi numeri, almeno sulla carta, la situazione sarebbe più che gestibile. Ma i numeri dei soccorsi della guardia costiera e della guardia di finanza sono di gran lunga inferiori agli arrivi autonomi o ai salvataggi effettuati dalle navi delle Ong. Quei migranti sbarcano direttamente in Italia e vengono trasferiti negli hotspot dove, come da prassi, iniziano le procedure di identificazione che possono richiedere ben più dei 28 giorni previsti per le pratiche del cosiddetto “rimpatrio veloce”. Ed è qui che potrebbero arrivare i primi nodi da sciogliere. Quanto tempo ci vorrà per stabilire se un migrante arrivato in un hotspot italiano provenga da un Paese dichiarato sicuro? C’è questo interrogativo, ma non è l’unico. Le associazioni umanitarie, che da sempre si sono scagliate contro quella che definiscono una “detenzione illegale” dei migranti nei centri, annunciano una guerra di carte bollate. E poi ci sono le decisioni che spettano ai giudici. E qui le interpretazioni della legge, come già successo nel recente passato, sono le più diverse. Dunque, c’è da chiedersi davvero quanto possano essere efficaci i centri in Albania, sottoposti alla giurisdizione italiana, quando quelli del nostro Paese, di fatto, sono semi vuoti. Di certo, come ha sottolineato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, il trasferimento dei migranti in Albania potrebbe rappresentare un deterrente alle partenze. Il condizionale resta d’obbligo perché nel giro di 36 ore a Lampedusa sono giunte più di 1.000 persone. E l’operatività dei centri nel Paese di Edi Rama era già di dominio pubblico.