Dove vanno a finire (e quanto inquinano) i nostri resi?

Certi prodotti non ci piacciono, fanno dei giri immensi e poi ritornano, quasi sempre, alla fabbrica di origine. Che magari si trova in Cina. Oppure al termine di un viaggio per tutta Europa lungo oltre 10mila chilometri e intervallato da pause di giorni e giorni dentro a uno stabilimento nel cuore della Polonia. È questo il destino dei nostri resi online, il cui costo per i consumatori è stato praticamente azzerato dalle politiche commerciali delle aziende che dominano il settore, ma la cui impronta ambientale è sempre più profonda. L’ha parzialmente stimata Greenpeace, tracciando alcuni prodotti di abbigliamento con un Gps nascosto, perché non esistono monitoraggi istituzionali, le aziende non forniscono motu proprio dati precisi e il legislatore non ha ancora imposto trasparenza al settore. Il risultato è sconfortante: ogni prodotto tracciato ha percorso in media un tragitto di 4.502 chilometri , perlopiù su gomma, e quasi sei capi su dieci non hanno fatto ritorno sul mercato. Con buona pace di Antonello Venditti. I viaggi per l'Europa tracciati con il Gps L’ong ha tracciato 24 capi da otto giganti digitali del fast fashion per 58 giorni consecutivi. I pacchi, per fare ritorno alla casa madre, hanno attraversato 13 Paesi europei percorrendo complessivamente circa 100mila chilometri: la maggior parte via camion , poi in aereo , furgone e nave . “La nostra indagine nasce dal fatto che, anni fa, le aziende sono finite nell’occhio del ciclone per aver distrutto molti di questi resi – spiega Giuseppe Ungherese, responsabile dell’area Inquinamento di Greenpeace Italia – ma abbiamo visto che anche gli altri prodotti vengono gestiti male: di fatto, girano all’impazzata senza un criterio comprensibile”. A farne le spese è sempre l’ambiente: la ong, nello studio, ha stimato l’emissione di 2,78 chilogrammi di CO2 equivalente per ogni trasporto di ordine o di reso, 74 grammi di plastica per il confezionamento di ciascun pacco e un aumento del 24% delle emissioni a restituzione. “In alcuni casi abbiamo notato anche che le aziende, a prescindere dal prodotto e dall’ordine, facevano rientrare sempre il pacco in Polonia. Come se dovesse passare dal via”. Ciononostante, secondo le stime di Greenpeace, il costo medio del carburante per ogni reso non ha superato gli 87 centesimi. Rendendo, di fatto, per le ditte sconveniente impegnarsi a reinserire nel mercato i prodotti indesiderati. “Servirebbe una tassa che sia commisurata all’impronta ambientale dell’azienda e che freni concretamente questo fenomeno – sostiene Ungherese – e parallelamente un registro, consultabile dai clienti, che sveli come vengono gestiti i resi, quanti ne sono rivenduti e quanti hanno una seconda vita. Insomma, c’è bisogno di trasparenza”. Qualche buona pratica Qualche risposta dalle aziende, anche le più grandi, arriva. Amazon, ad esempio, assicura di ridurre l’impatto ambientale con opere di prevenzione e di buona gestione dei resi. Prima, ottimizzando la ricerca del prodotto corretto da parte del consumatore. Pratica più complessa per i capi d’abbigliamento e per la merce tecnologica, dove il tasso di reso è più alto. Poi, evitando la distruzione del prodotto restituito. Le strade sono tre: la seconda immissione nel mercato come “nuovo”, la rivendita come “usato” e la donazione. Anche in questo caso, però, mancano i numeri per capire il reale impatto delle politiche di Amazon. Solo la terza via, quella della beneficenza, offre un supporto statistico: a livello globale, Amazon sostiene di aver donato nel 2023 oltre 160 milioni di articoli a enti benefici. Cifra che, però, è inferiore al numero di ordini che, solo in Italia, sono stati ordinati online nel primo trimestre del 2024. Più di 186 milioni di prodotti . Consumatori più consapevoli Il diritto al reso non si può limitare: in Italia è dal 2000 che i consumatori a distanza sono tutelati dalle frodi godendo della possibilità di restituire merce che, prima di essere acquistata, non si può vedere o toccare. Poco importa se la compravendita si è svolta online o via telefono. Ma da quando questo diritto è di fatto diventato gratuito, l’abitudine a rimandare indietro gli acquisti è dilagata. L’abbigliamento e i prodotti sportivi sono i più restituiti: nel primo semestre del 2024, per oltre un capo su 10 è stato richiesto il reso. Ma non ovunque si ricorre ugualmente alla restituzione: se al Nord si effettua il reso mediamente per il 5,5% degli ordini, al Sud le cifre si alzano all’8%. “Probabilmente al Sud manca la presenza capillare di negozi fisici per andare a verificare la merce prima dell’acquisto online” ipotizza Roberto Liscia, presidente Netcomm. Secondo cui, per limitare l’impronta ambientale, non si può disincentivare il reso imponendo un costo, pur esiguo, al cliente: “Obbligare politiche commerciali in un mercato liberistico è sempre molto difficile. Imporre di far pagare un reso rischia di limitare la libera concorrenza in quel commercio”. Escludendo il legislatore, dunque, la soluzione sarebbe in mano alle buone pratiche delle aziende. “Sta decollando ultimamente l’idea di lavorare sulle materie prime, su prodotti che nascano eco-compatibili. E poi serve innescare meccanismi di consapevolezza da parte del consumatore, non solo provvedimenti legali”, suggerisce Liscia. EcoDesign Ue, il regolamento anti-distruzione Eppure, qualche legge potrebbe a breve riordinare il fenomeno. È la proposta di regolamento Ecodesign dell’Unione europea, approvata ad aprile dal Parlamento. La norma – che sarebbe vigente senza bisogno di ricezione da parte dei Paesi membri – introdurrebbe un passaporto ambientale con il “pedigree ecologico” di ogni prodotto venduto: tracciabilità, sostanze chimiche e istruzioni per l’uso e per il riciclo. Ma soprattutto il regolamento imporrebbe il divieto della distruzione di alcune merci: entro due anni dall’entrata in vigore, ad esempio, tutte le grandi aziende dovrebbero smettere di mandare al macero abbigliamento, accessori e scarpe invendute. Lo scopo è limitare una sovrapproduzione che, nel solo 2022, ha fatto sprecare all’Europa 3,7 miliardi di euro nella distruzione di dispositivi tecnologici. Un passo in avanti che, per le associazioni ambientaliste, non sarà però sufficiente: “Un freno serve – commenta Giuseppe Ungherese di Greenpeace – ma purtroppo, come succede sempre nelle cose digitali, il business è molto più avanti rispetto al legislatore”.