Cosa dice il primo studio sulla violenza di genere sui social media in Italia

A inizio luglio l’Istat ha rilasciato il suo primo Report sull’analisi della violenza contro le donne veicolata dai social media, il risultato di un anno di raccolta e studio delle interazioni generate dagli utenti su Twitter/X, Instagram, Facebook e sul web sul tema della violenza di genere. L’obiettivo dello studio è analizzare come i social media producano o riproducano stereotipi di genere, amplifichino il linguaggio violento o, al contrario, generino indignazione negli utenti, osservandone le variazioni rispetto a eventi particolarmente centrali nella produzione di messaggi sul tema e i picchi connessi ad eventi di cronaca o altri fatti legati alla violenza di genere. Meccanismo di violenza Le Nazioni Unite utilizzano l’espressione Technology Facilitated Gender Based Violence per indicare le violenze contro una persona basate sul genere e commesse attraverso l’uso delle tecnologie e degli spazi digitali. Come segnala il report dell’Istat, questa forma di violenza condivide le stesse cause che determinano le forme di violenza offline, ovvero gli stereotipi culturali sui ruoli di genere, ma assumono anche delle caratteristiche proprie, sfruttando le peculiarità degli ambienti digitali. Tra queste, Cosimo Marco Scarcelli, professore Associato presso il dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova ed esperto in genere e sessualità, new media literacy e media education, evidenzia “i ricatti legati a minacce di pubblicare informazioni, foto o video a sfondo sessuale ; la condivisione di foto intime senza consenso ; la pubblicazione di informazioni private ; le molestie sessuali online; l’uso delle tecnologie per localizzare le donne sopravvissute agli abusi; il cyberstalking; le offese e l’incitamento all’odio”. “Pur non avendo sempre conseguenze fisiche dirette, come potrebbero averle le percosse”, aggiunge Scarcelli, questi tipi di violenza “hanno comunque un impatto significativo sulla salute e la sicurezza di chi le subisce, oltre a conseguenze più ampie che toccano la società intera, l’economia e la vita democratica”. Indignazione e linguaggio d'odio I dati raccolti dall’Istat vanno dal 1° novembre 2021 al 30 novembre 2022 e riguardano un totale di 1.231.385 messaggi sulla violenza di genere, di cui 1.012.110 post su X-Twitter, 103.442 messaggi web, 55.358 post Instagram e 35.205 commenti Facebook. Su questa raccolta di dati sono stati poi condotti due tipi di analisi: una sentiment analysis, ovvero uno studio computazionale delle opinioni, delle valutazioni, degli atteggiamenti e delle emozioni delle persone nei confronti della violenza di genere, e una emotion detection, un tipo di studio che condivide le stesse tecniche della sentiment analysis, andando però a circoscrivere la prevalenza di 6 emozioni: amore, gioia, neutralità, tristezza, paura e rabbia. Nel periodo considerato, i messaggi che esprimono indignazione superano quelli che contengono espressioni d’odio e il divario si fa più ampio in corrispondenza di episodi, informazioni e notizie che hanno provocato una più intensa discussione sui social. “L’indignazione mostra una parte di persone stanche di una cultura che, anche in seguito a un certo clima politico, continua a rafforzare gli stereotipi di genere e a replicare atteggiamenti violenti contro le donne e le persone LGBTQIA+”, commenta il professore Scarcelli. Non solo: l’indignazione contribuisce anche a sentire le persone che subiscono violenza di genere meno sole e responsabili di quello che è successo. Un buon segnale che però non può farci leggere questi dati con eccessivo ottimismo. “Il rischio è che ci si limiti all’indignazione sui social senza impegnarsi realmente nella vita di tutti i giorni: la violenza risiede in molte micro-pratiche che non è sempre facile riconoscere, dalla battuta alla condivisione di una foto senza l’intento di danneggiare qualcuno. È necessario aiutare le persone a trasformare l'indignazione in un lavoro riflessivo che contribuisca a modificare gli atteggiamenti quotidiani di ciascuno di noi”, aggiunge l’esperto. Attraverso l’emotion detection, l’Istat rileva anche che ai messaggi di indignazione sui social si associano soprattutto rabbia e tristezza . Solo il 1,5% dei messaggi esprimono invece paura. Focus sulla vittimizzazione secondaria Il report si sofferma in particolare su di un caso di vittimizzazione secondaria, ovvero una situazione in cui l'attenzione o la responsabilità della persona che ha commesso la violenza viene spostata sulla persona che l’ha subita, che viene quindi percepita come colpevole di quello che le è successo. In particolare, il report analizza un episodio di cronaca avvenuto nel luglio del 2022, quando la Corte d’Appello emette una sentenza che assolve un giovane dall’accusa di stupro sostenendo che “la ragazza lo ha indotto ad osare” in quanto ubriaca. Il grafico analizza un corpus di 26.320 tweet pubblicati tra il 7 e l’11 luglio 2022 utilizzando la metodologia LDA per identificare tre principali topic , che a loro volta sono formati di una serie di parole che appartengono allo stesso campo semantico. I risultati sono rappresentati in uno spazio bidimensionale, dove i topic sono visualizzati come cerchi. La dimensione di ciascun cerchio è proporzionale alla frequenza delle parole nel topic, mentre la distanza tra i cerchi indica la similarità: più i cerchi sono vicini, maggiore è il numero di parole in comune. I tre topic identificati sono: "Body shaming", "Vittimizzazione secondaria" e "Discussione sulla sentenza per stupro". Particolare attenzione è rivolta al secondo topic, "Vittimizzazione secondaria", che include parole chiave come "stupro", "osare", "invito", "violenza", "donne", "Torino", "ragazza", "consenso", "sentenza" e "ubriaca". Le parole "invito", "consenso" e "ubriaca" sono esclusive di questo cluster e rappresentano l'atteggiamento di chi considera la vittima parzialmente responsabile dell'episodio di violenza. “La cultura patriarcale, che ancora persiste nella nostra società, continua a relegare le donne negli spazi privati e a lasciare agli uomini gli spazi pubblici, chiedendo inoltre alle donne di controllare attentamente la propria sessualità e quella degli uomini, cercando di non turbarla con abiti troppo corti, atteggiamenti o contenuti eccessivamente liberi o provocanti. Se non rispetta questi dettami, ad esempio andando a una festa, bevendo un bicchiere in più o postando una foto in costume, la vittima viene declassata a sprovveduta, una persona che "se l’è andata a cercare", che sapeva come sarebbe finita o che, addirittura, avrebbe creato la situazione per poi ritrattare. Queste sono retoriche spesso utilizzate sui social per screditare la vittima di violenza e far passare tutto come una bravata o, peggio ancora, una trappola organizzata da chi ha subito violenza”, precisa il professor Scarcelli. Di fronte alla presenza di linguaggio d’odio e di episodi di vittimizzazione secondaria come questi, l’esperto considera che bisognerebbe aiutare le persone più giovani, ma non solo, a comprendere a fondo le logiche dei media digitali, il concetto di consenso e quello di ruoli di genere. “Ormai lo si ripete da tanto tempo: serve l’educazione sessuale, serve parlare di questi temi, servono spazi di confronto in cui dialogare sul significato delle relazioni, serve rompere il silenzio attorno ai temi legati alla violenza per costruire nuovi sguardi e nuovi atteggiamenti”, conclude Scarcelli.