Infanticidio a Parma, come è possibile non aver visto la realtà?

Prego, scomodati ché parliamo degli elefanti nei nostri salotti. In questi giorni la mente collettiva del Paese è stata scossa dalla notizia del ritrovamento dei cadaveri di due neonati nel giardino di una casa, laddove generalmente si piantano alberi e fiori. Pare che a seppellirli a distanza di un anno l’uno dall’altro sia stata la giovane madre poco più che ventenne, studentessa universitaria, impegnata attivamente nella sua comunità. Mentre tutti i media parlano di lei, sgomenti di fronte a come possa essere stato possibile, io preferisco lasciare che le indagini seguano il loro corso e sfidare il pensiero ad un altro livello di riflessione - decisamente più alla portata delle mie competenze. Come può essere accaduto che nessuno si sia mai accorto di niente?, ci si domanda - e l’interrogativo mi colpisce perché per chi fa il mio mestiere la risposta c’è. È raggiungibile da uno sguardo coraggioso, che affronta dirupi e strade sconnesse, si inerpica tra rovi che lasciano segni sulla pelle e richiedono di orientare lo sguardo nella direzione giusta. Sta in quella madre che una volta si disse sorpresa del disturbo alimentare della figlia: certo, aveva preso dieci chili in un mese, ma… credeva che avesse iniziato a bere e fosse gonfia per via dell’alcol. Sta in un padre che con la compagna e il figlio viveva in un monolocale dove c’era posto per un solo letto matrimoniale condiviso da tutti e tre nel quale per anni la mamma del bambino aveva abusato di lui, cosa della quale non si capacitava e non si era mai reso conto. Sta negli insegnanti di una ragazza che un giorno si presentò a scuola con una svastica sanguinante incisa su una guancia e la interrogarono sulla lezione del giorno anziché su cosa le fosse capitato. Ma sta anche nei figli che “non danno mai problemi” sì da renderci tanto orgogliosi anziché instillarci il dubbio che forse un po’ di fatica con loro sarebbe normale farla, in quelli che al contrario sono distruttivi e sofferenti ma crediamo che purtroppo siano “nati così di carattere”, nei bambini e nelle bambine sempre tristi che non vengono mai invitati a giocare da nessuno e di cui finiamo per dimenticarci anche noi. Se i nuclei sociali fossero i luoghi idealizzati da sit-com che abbiamo bisogno di credere che siano, il mio lavoro non esisterebbe. Semplicemente, non sarebbe mai stato inventato: cos’altro è infatti la psicologia se non lo studio della complessità del nostro funzionamento, la psicoterapia la cura a quanto funzioniamo male e la psicanalisi l’indagine simbolica del perché sia così? Di fatto, il mio è il mestiere che attraverso l’ascolto libera la limpidezza dello sguardo e permette di vedere la nostra vita e coloro che la abitano per quella che è, anziché per quella che abbiamo bisogno di credere che sia. Per salvarci, per proteggerci, per non impazzire, per tirar sera, per non finire in prigione, per poterci presentare puliti in ufficio, per darci un po’ di tregua. Siamo fatti di acqua e meccanismi di difesa, e con variazioni quantitative questo vale per tutti. Domandarsi dunque come una cosiddetta “ragazza modello” possa avere avuto due gravidanze senza che se ne vedessero i segni fisici, abbia partorito in solitudine nella casa dei genitori, abbia ucciso i due bambini e poi li abbia seppelliti in giardino per proseguire con la sua vita come se nulla fosse stato - generando così gli occhi sbarrati di chi non aveva notato né capito nulla, di fatto trova risposta nella corda tesa al massimo grado di una cecità di cui tutti siamo affetti. Non ha a che vedere con la progressiva parcellizzazione dei tempi moderni che ci rende sempre più individualisti e ombelicali: è così da che mondo è mondo. L’ordine costituito e lo status quo vengono protetti contro il cambiamento da sempre, la sicurezza è puntualmente preferibile agli imprevisti, aggirare gli ostacoli è una naturale tendenza umana. In psicologia si chiama consonanza cognitiva: siamo portati ad assumere elementi in accordo con le nostre convinzioni, non vogliamo essere disturbati né costretti a rimettere in moto le sinapsi per cambiare idea; in psicanalisi si chiama denial, negazione: si tratta di proteggersi dalla realtà perché percepiamo che ci risulterebbe troppo dolorosa e inaffrontabile, se vi entrassimo in contatto. E allora ignoriamo i fatti, gli indizi, le informazioni, le sensazioni. Le soffochiamo, volgiamo l’attenzione altrove, ci diciamo che ci penseremo domani o che ci penserà qualcun altro. Alluciniamo quello che non c’è, non vediamo quello che c’è. Non lo vediamo davvero. Siamo deboli e spaventati, candidati ad essere perfetti autori di disastri - quando non complici di reati. Vivere ci affatica, sbagliare ci umilia, essere chiacchierati ci spezza, cambiare ci spaventa, uscire dal solco tracciato per noi ci fa sentire sbagliati e in colpa, essere autenticamente noi stessi ci atterrisce. In quest’ottica, l’infanticidio è la rappresentazione icastica della negazione: nega tutta la filiera della vita, dal rapporto sessuale alla gravidanza, dalla fertilità alla femminilità, dalla famiglia all’esistenza. Uccidere un neonato è un atto che ha l’intenzione di cancellare il fatto di essere anche solo stata potenzialmente madre, è un gesto rivolto alla pervicace volontà di proseguire imperterrite una vita che non venga deviata dall’apparire sulla scena di un’altra vita vissuta come intralcio al proprio Sé immutabile. Ecco allora come potrebbe essere accaduto, di non avere visto niente: se chiamiamo solitudine non ritrovarci ad essere gli ultimi ad uscire dalla sala di un cinema, bensì non essere visti da nessuno quando metterci a fuoco vorrebbe dire ingaggiare un raffinato e spesso doloroso duello tra chi siamo davvero nei punti più imprevedibili della nostra vita, e chi invece occorre che fingiamo di essere.