Perché è giusto vietare smartphone e social media a scuola

Negli ultimi giorni si è parlato molto, e con toni critici, della decisione del ministro dell’Istruzione Valditara di vietare l’uso degli smartphone nelle classi delle scuole elementari e medie. Il ministro è stato accusato di “scaricare” la responsabilità dell’educazione ai media sui genitori, creando peraltro disparità fra chi ha i mezzi e il tempo per impartirla e chi no. Vietare senza prevedere adeguate campagne di informazione e formazione rivolte alle scuole, ai docenti e ai genitori rende il divieto stesso parzialmente efficace: una volta usciti da scuola, bambine e bambini saranno liberi di tirare fuori i loro smartphone, chattare, giocare e stare sui social senza che molti genitori abbiano nulla da ridire. È pur vero, però, che a volte i divieti imposti per legge sono un ottimo inizio per creare una cultura del rischio e per accendere un faro su un problema che tutti sanno esistere ma che è più semplice ignorare. Alla pari del fumo? Nel 2003, l’ex ministro della Salute Sirchia estese il divieto di fumo a tutti i luoghi chiusi tutelando così la salute dei non fumatori. Il suo predecessore, il prof. Umberto Veronesi, ci aveva provato tre anni prima definendo il suo progetto di legge “non un progetto proibizionista, ma di salvaguardia e tutela della salute pubblica contro un rischio grave”. La proposta naufragò e ci vollero tre anni perché fosse approvata, ma ebbe il merito di avviare un dibattito dal quale è nata una maggiore consapevolezza dei danni provocati dal fumo. Per qualcuno potrà sembrare strano paragonare gli smartphone e i social media alle sigarette, ma sono sempre di più gli studi scientifici che mettono in relazione l’uso precoce di smartphone e social media con pratiche, disturbi e patologie diverse che vanno dalla privazione di sonno e della socialità fino ai disturbi del comportamento alimentare, alla depressione, l’autolesionismo e il suicidio. I detrattori di queste ricerche sostengono che smartphone e social non siano la causa di queste patologie, ma che chi soffre di queste patologie sia più propenso a chiudersi nella vita virtuale. Il tema è dibattuto e lo sarà ancora a lungo, anche perché l’introduzione degli smartphone e dei social media è recente e gli studi sono ancora pochi . Non viviamo in un mondo ideale Ma un po’ come per il fumo nei luoghi chiusi basta guardarsi intorno e non ostinarsi a vivere in una torre d’avorio per capire che c’è qualcosa che non va: è sano che un bambino o un ragazzo tengano in tasca un dispositivo che contiene videogiochi, serie tv, chat, social media dallo scroll infinito durante l’orario scolastico? È’ sano e naturale che buona parte del tempo che da adolescenti abbiamo trascorso fisicamente insieme ai nostri amici sia oggi rimpiazzato da una chat e una emoji? È sano che un bambino sia sveglio fino a notte fonda a chattare o che sia lasciato da solo, online, dove il rischio di incappare in contenuti inappropriati o - peggio - in un pedofilo è più alto che nella vita “reale”? Chi critica il divieto finge di vivere in un mondo ideale, dove la scuola ha i fondi da investire nell’educazione ai media, dove i genitori hanno il tempo, le competenze e la voglia di accompagnare i figli a un uso consapevole dei dispositivi, ma soprattutto dove le piattaforme di social media non sono minimamente interessate a trattenere con qualsiasi mezzo i nostri occhi sullo schermo. Necessità provvisoria Purtroppo, però, il mondo ideale non esiste: all’istruzione, da decenni, spettano sempre meno fondi. La maggior parte dei genitori è molto più propensa a regalare uno smartphone a un figlio di 10/11 anni che a farlo uscire da solo con gli amici. Gli orari di lavoro sono spesso proibitivi e gli spazi di dialogo fra genitori e figli sono ridotti al minimo, soprattutto nelle grandi città dove padri e madri vivono spesso soli e senza reti sociali. Le piattaforme di social media sono costruite su trick psicologici e tecnologici capaci di fagocitare facilmente l’attenzione degli adulti figuriamoci quella di bambini e adolescenti che - dannata evoluzione - non hanno ancora sviluppato quella parte di corteccia cerebrale che serve a resistere alle tentazioni. Questo è il mondo reale su cui si è abbattuta la rivoluzione digitale. Se vogliamo che sia positiva, è necessario sì che l’istruzione abbia più fondi, che i genitori siano più consapevoli e propensi a fare fronte comune , che la politica legiferi per limitare lo strapotere delle piattaforme e investa in adeguate campagne di informazione e formazione. Ma nel frattempo, ben vengano i divieti e non solo a scuola.