Dissesto idrogeologico: come evitare (o almeno arginare) nuovi disastri

Mentre le alluvioni riportano un pezzo dello stivale sott’acqua va in scena il consueto balletto delle responsabilità. Il “chi doveva fare cosa” dopo, o addirittura durante, un evento straordinario come le violente inondazioni che hanno travolto l’Emilia Romagna, è una specialità tutta italiana. Intanto sul campo la protezione civile e le forze dell’ordine s’impegnano per arginare i danni e portare conforto alle popolazioni colpite. In questo quadro si dovrebbe una volta per tutte intraprendere un percorso virtuoso che permetta al Bel Paese di non ripiombare, come accade ormai sempre più spesso, in disastri di questa portata. Allora cosa sta accadendo? Lo abbiamo chiesto all’ingegner Domenico Condelli Consigliere del CNI con delega al dissesto idrogeologico… Il nostro territorio oltre ad essere molto particolare è fortemente antropizzato con una miriade di piccoli comuni e nuclei urbani assai diffusi. Negli anni c’è stato un intervento urbanistico spesso disorganizzato e, spiace dirlo, a volte speculativo. Se a tutto questo aggiungiamo l’incremento di consumo di suolo dovuto anche ai forti cambiamenti climatici e la scarsa manutenzione ecco spiegato quanto sta accadendo. Cosa si può fare per arginare tutto questo? Innanzitutto, bisognerebbe investire molto di più sulla prevenzione. Noi siamo un paese bravissimo ad intervenire in fase d’emergenza meno in fase di programmazione. Nella prevenzione abbiamo speso negli ultimi anni quasi 7 miliardi di euro per un totale di circa 6.600 interventi. Le stime attuali ci dicono però che questi numeri non sono sufficienti. Infatti nella piattaforma Rendis, che è quella utilizzata dalle PA per produrre i dati legati ai fenomeni del dissesto idrogeologico, attualmente sono caricate opere per circa 27 miliardi quindi una cifra molto più alta. Quali sono le priorità su cui intervenire? Come detto il nostro territorio è fatto da tanti piccoli comuni dove vivono moltissime persone. Dalle analisi sappiamo che circa 6,8 milioni di abitanti risiedono in aree a rischio alluvionale medio e altri 2,4 milioni in zone alluvionali ad alto rischio che complessivamente fanno circa il 15% della popolazione. In questi contesti bisognerebbe agire in primis con una costante manutenzione su quello che è stato già realizzato e - mi consenta - sarebbe necessario intervenire anche dal punto di vista legislativo. La manutenzione delle opere esistenti infatti dovrebbe avere autorizzazioni semplificate e non richiedere anche i pareri ad enti terzi con tutte le lungaggini burocratiche che ne derivano rendendo così i progetti immediatamente cantierabili. L’altro aspetto attiene alle grandi opere come le vasche di laminazione di cui si sente tanto parlare in questi giorni con le alluvioni in Emilia e nelle Marche. Opere i cui tempi di realizzazione sono più lunghi, per cui è importantissimo velocizzare i processi. Consideri che secondo la Corte dei conti mediamente per la realizzazione di un’opera ci vogliono 4,6-4,7 anni. Di questo periodo di tempo, la metà è impiegato nella fase di progettazione. L’altra metà del tempo, detto attraversamento, porta dalla fase progettuale all’altra che è la fase in cui vengono praticamente acquisite tutte le autorizzazioni. È qui che si perde la maggior parte del tempo. Poi però quando arrivano le piogge ci ritroviamo sempre punto a capo con le emergenze... La nostra protezione civile ci viene invidiata un po’ da tutti proprio per la capacità di gestire le emergenze. Noi interveniamo a supporto ma non nella fase d’emergenza in quella successiva quando ci viene richiesto attraverso la struttura tecnica della protezione civile di cui facciamo parte. Un altro aspetto non di poco conto riguarda l’analisi sullo stato del nostro costruito. Il punto è che si basa su calcoli e su parametri frutto di studi che risalgono a decenni fa. Nel dettaglio le dico che un’opera progettata nel 1980 riconduce a studi precedenti che non tengono minimamente in considerazione il cambiamento climatico. Per fare un esempio, la pioggia caduta nelle zone colpite dalle alluvioni a volte è stata il doppio rispetto a quella calcolata negli studi utilizzati. Tutto questo mi porta a dire che si dovrebbe considerare una nuova riprogettazione che tenga conto di tutti questi aspetti e contestualmente creare una mappa delle zone in cui sono più presenti questi rischi e investire sul monitoraggio. Oggi esistono strumentazioni molto sofisticate che consentono di monitorare ad esempio i livelli dei fiumi dando quel vantaggio di tempo oggi essenziale per avvisare la popolazione. Oggi c’è molta polemica sulle competenze dello Stato e delle Regioni. Tecnicamente come funziona? Funziona così. I fondi del dissesto sono affidati alle Regioni che sono un elemento centrale rispetto al problema. Nello specifico il Comune entra nella piattaforma Rendis ed indica le proprie problematiche. Una volta analizzate dalla regione vengono mandate al ministero per i finanziamenti. Finanziate tornano alle regioni che attraverso il soggetto così detto “attuatore” provvede all’organizzazione di tutti i progetti. A questo punto la regione, attraverso il soggetto attuatore, demanda, solitamente ai comuni, lo sviluppo del progetto mantenendo il controllo sulle fasi successive e quelle esecutive. In Emilia , per restare sull’attualità, con un quadro burocratico piuttosto articolato e dopo l’alluvione dell’anno scorso, si è aggiunto un passaggio con la nomina del Commissario. Questo scenario a volte potrebbe creare qualche sovrapposizione tra Stato e Regione. L’esecuzione delle opere guarda al tempo impiegato per costruirle. Quali sono le regioni più virtuose? Come le dicevo non c’è una grande differenza dal punto di vista dei tempi. Quello che varia sono gli importi che cambiano da regione a seconda delle problematiche connesse al territorio. Quello che posso dire è che negli anni le diverse norme dedicate al tema del dissesto a volte non sono state perfettamente integrate tra loro. Con la piattaforma Rendis si è cercato di mettere un po’ di ordine.