Strage di Paderno, Pellai: "I giovani uomini e la paura delle emozioni"

Un ragazzo pacato, una famiglia tranquilla, una vita normale. Sono questi gli aggettivi che sono stati utilizzati più spesso nelle ultime ore per commentare il triplice omicidio di Paderno Dugnano. Il diciassettenne, che ora si trova nel carcere minorile Beccaria di Milano e ha cominciato i colloqui con gli educatori, ha accoltellato prima il fratellino di dodici anni mentre dormiva e poi i genitori, da svegli. Durante l’interrogatorio è arrivata la confessione. Il giovane ha parlato di un “malessere suo, non collegato alla famiglia”, qualcosa di più profondo e di un senso di estraneità e di non appartenenza che sono stati forse confusi con la sua indole riservata e silenziosa. Mentre si attende l’analisi dei dispositivi elettronici - cellulare, tablet, PC - del ragazzo per capire se ci sia stato un percorso graduale di avvicinamento alla violenza o degli episodi scatenanti, abbiamo parlato con Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’università degli Studi di Milano che da sempre si occupa di età evolutiva. Allo stato attuale non c’è un movente tecnico e non si è a conoscenza di segnali o presagi, ma secondo Pellai proprio nella calma apparente si possono annidare i germi di un omicidio. Professore, una strage familiare in cui l’assassino è un diciassettenne. Da dove cominciare? È difficile farsi un’idea su una cosa così terribile, ma possiamo già ipotizzare che gli ingredienti in gioco siano un enorme disagio, assolutamente incomprensibile, che affonda a sua volta dentro un vuoto interiore enorme. Questo vuoto è un'esperienza che condividono di questi tempi molti ragazzi, perché non sono minimamente in grado di rimanere in contatto con se stessi, di riconoscere che emozioni stanno provando E poi credo che dietro questa storia ci sia una solitudine profonda. Il ragazzo non sembrava una persona “sola”. Aveva una famiglia, degli amici, dei compagni di squadra. Cosa vuol dire in questo caso solitudine? C’è un dato di fatto che per molte famiglie è incomprensibile: un ragazzo di diciassette anni non ha più bisogno di essere e sentirsi parte della famiglia e non ha neanche più bisogno di sentirsi un bravo figlio, cosa che lui sembrava essere. Quando sei adolescente, hai bisogno di avere non tanto dei genitori presenti, quanto un gruppo di pari, di amici a cui ti senti davvero di appartenere, un gruppo che sa rispecchiare i tuoi stati emotivi e con cui sai parlare e dialogare di quello che ti accade dentro. Penso che questo sia l’epifenomeno di qualcosa di enorme e che riguarda il mondo degli adolescenti più in generale, in particolare dei maschi. Agiscono molto, fanno cose, ma in contesti in cui dovrebbero trasformare in parole le cose della vita, i dubbi e i disagi. Si possono fare milioni di attività con altre persone che non sanno niente di noi. In questo caso specifico ancora sappiamo poco, ma la domanda è: quante ore restano chiusi nella loro camera ragazzi di undici, quattordici, sedici anni? Questo è il tempo in cui ci si deve allenare alla vita, in cui si fa, si va, si incontra. Invece, i nostri ragazzi sono tutti chiusi nel silenzio di camere dove vengono fatte cose che non servono a niente per diventare grandi. Il problema quindi non è il malessere, il disagio in sé, ma è l’incapacità di verbalizzarlo? Non c’è un adolescente senza disagio, l’abbiamo sperimentato tutti. Come abbiamo fatto ad attraversarlo? Facevamo lunghe telefonate con gli amici e le amiche del cuore, persone con cui parlavamo molto in telefonate fiume o incontrandoci e questo a livello generazionale non sta più accadendo. Hanno in mano strumenti che apparentemente li rendono in connessione con gli altri, ma sono in totale disconnessione. E poi sono molto obbedienti. L'obbedienza non è una virtù? Questo ragazzo faceva tutto quello che si dovrebbe fare alla sua età, ma non è l’obbedienza il copione che ti deve portare all’adultità. Si diventa adulti sperimentando l'autonomia e mettendo alla prova la capacità di prendere in mano la propria vita e darle una direzione. La psicologia dà un nome a tutto questo? Si trovava in uno stato che la psicologia chiama di depersonalizzazione e derealizzazione, cioè non si sentiva abitante della sua persona e identità, né della sua realtà. Aveva la sensazione di vivere in uno stato di costante dissociazione. C'è un altro elemento: per definizione l'adolescenza è un'età fatta di confusione e caos, ma per le altre generazioni questo caos rimaneva dentro un principio di realtà. Mi spiego meglio. Principio di realtà significa sapere quali siano i limiti invalicabili, le cose che si possono fare e quelle che non si posso fare. Freud ci dice: “Devo uccidere mio padre. Certo, è un pensiero, ma non lo agisco”. In questi casi recenti, le cose vengono “agite” e un istante dopo uno si accorge di aver fatto qualcosa di irreparabile e che non servirà a niente. Quali sono le insidie che si celano dentro una famiglia apparentemente perfetta? Andava a scuola, si preparava alla quinta liceo, faceva sport nella squadra di volley in cui il papà era presidente, non stava sbagliando niente, a parte quel debito in matematica, ma è come se facesse cose per senso del dovere, mentre a diciassette anni hai un bisogno enorme di fare cose che senti importanti per la tua vita e solo tue. Si era ritrovato a essere estraneo, questa la parola utilizzata, al desiderio: non sapeva di quali ingredienti fosse fatto il desiderio. Era in preda a un vuoto di desiderio. Mi sembra che ciò che noi consideriamo benessere coincida in modo errato con i bisogni materiali, soddisfatti molto bene dai genitori di oggi, e con la protezione. Genitori che amano tantissimo al punto che pensano di poter proteggere i propri figli da tutto. Forse, ipotizzo, occorreva più conflitto, più litigio, più scontro, scontrarsi per capirsi. Questo cristallo di perfezione assoluta, dove tutto funziona alla perfezione, con un adolescente in casa non dovrebbe essere un modello. La tranquillità è paradossalmente un segnale di disagio? L’adolescente non è per natura un soggetto che deve garantire al suo sistema familiare la tranquillità. Deve portare al contrario perturbazione e tsunami. Certamente non in una deriva distruttiva, ma in un percorso che sia anche autonomizzante. Deve poter dire ai propri genitori: “Mi dovete proteggere meno, non ci siete solo voi, devo fare un pezzo di vacanza con i miei amici, avere i miei luoghi e i miei spazi”. Dormiva in stanza con il fratello, ma sembra che abbia fatto anche delle vacanze da solo… Ma lì che cosa è accaduto, di che cosa si sono parlati, cosa si sono detti? Purtroppo, bisogna dire che per i maschi è faticosissimo parlare della propria tristezza, paura, ansia, angoscia: è proprio una questione di genere, perché sono tutte modalità per cui nell'esprimere le emozioni ci si percepisce come non maschi e quindi automaticamente non validi. I maschi, vittime del patriarcato? Più che del patriarcato, di questa idea che tu debba apparire come un vero uomo e che tu non possa permetterti di essere, viceversa, uomo vero. Un gioco di parole che rende l’idea. E così costruiamo una cultura di genere che appiccica addosso un ruolo di genere, in cui la fragilità non trova spazio e per questo noi terapeuti vediamo che per i ragazzi è molto più difficile chiedere aiuto a uno specialista, cosa che invece le ragazze sanno fare molto meglio. Spesso i più titubanti nello sdoganare l’accesso all’aiuto psicologico dei figli maschi sono i padri. “Imprevedibilità” è una parola che possiamo usare in questo caso? Io credo al fatto che esiste una dose di agiti, vale a dire azioni, che vengono messi in atto, a volte anche terribili, senza nessun genere di autoriflessività e pensiero critico. Eppure avrebbe detto: "Ci pensavo da un po'” Posso immaginare che l’unica cosa che il ragazzo abbia pensato sia “prendo un coltello e li faccio fuori”, ma che si sia fermato lì, cioè che alla base ci fosse un’incapacità di visualizzare il prima, il dopo e il durante. Si agisce così senza nessuna riflessione sulle implicazioni, sulle conseguenze che si scoprono l’istante dopo che è stato commesso il fatto. Non c’è più questa capacità di elaborazione e significazione: prevedere è una funzione che sviluppiamo quando abbiamo raggiunto una buona maturità cognitiva e sappiamo riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni. In un mondo tutto azioni e tutto impulso, questo passaggio cognitivo è più faticoso da fare che in passato. Non c’è un movente tecnico per ora, ma ci sono tante strade aperte per capire casomai quale sia il movente sociologico, per ammissione della stessa magistratura. Potremmo, secondo lei, arrivare a una risposta precisa per fare un lavoro come società, non tanto di prevenzione, ma almeno di consapevolezza su questo disagio? Io credo che questo tipo di disagio sia frutto del vuoto interiore, come ho detto, ma anche della “cura del dentro” che non si pratica quasi più: manca la spiritualità, il farsi le grandi domande, la costruzione di spazi di dialogo, relazione e confronto. E poi la già citata solitudine e l’isolamento sociale. Come genitore, oltre che come professionista, si è posto anche lei la domanda: “Potrebbe succedere anche a me?” Sono sguarnito come il resto del mondo di fronte a una cosa così terribile: è chiaro che tutti noi genitori in questo momento ci domandiamo cosa ci sia davvero nella mente dei nostri figli. Ogni giorno quando pranzo e ceno con loro provo a capire il più possibile, ma c’è sempre un’area solo loro, in cui non possiamo entrare. Vede delle connessioni tra il triplice omicidio di Paderno e l’omicidio di Sharon Verzeni? Il punto in comune forse è proprio questo: dare la morte con leggerezza, senza pensarci troppo. Mi sono domandato proprio se la dinamica dell’accoltellamento che ricorre in entrambi i casi possa essere un indizio che deve farci riflettere. Questa idea per cui si prende un coltello di facile reperimento, si prova a vedere con dei fendenti se quest’azione produca qualche effetto. E il risultato è un omicidio o un triplice omicidio.

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